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EL 1353 Francesco Petrarca, fuggendo l'ultima volta Avignone e la corte romana senza pur visitare il pontefice Innocenzo sesto che lo sospet

tava mago, rivide al fine dall' alto del Monginevra, tutta verdeggiante nel lusso della primavera, rigata da' suoi fiumi superbi, gremita di città e di ville, la gran distesa del piano lombardo, rivide su le città romane, su le medievali castella, su le campagne sorridere carezzevole il sole di maggio. Il poeta aprí le braccia verso la patria con queste parole che io ripeto da un suo carme latino: Ti saluto, terra cara a Dio: santissima terra, ti saluto. O piú nobile, o più fertile, o più bella di tutte le regioni, cinta

di due mari e altera di monti famosi, onoranda a un tempo in leggi ed in armi, stanza delle Muse, ricca d' uomini e d'oro al tuo favore s'inchinarono insieme arte e natura, per farti, o Italia, maestra al mondo.... Tu darai un quieto refugio alla stanca mia vita: tu mi darai tanto di terra che basti, morto, a coprirmi. Come lieto, o Italia, ti riveggo da questa vetta del frondoso Gebenna! Restano a tergo le nubi, mi batte in viso un'aura serena: l' aere tuo assorgendo con soavi movimenti mi accoglie. Riconosco la patria, e la saluto contento: salve, o bel lissima madre: salve, o gloria del mondo. —

Tale al poeta, che ne' suoi romani disdegni l' avea pure sgridata vecchia oziosa e lenta, tale nell' amore apparía questa Italia, fresca e rigogliosa del suo ancor germogliante rinascimento; di quel rinascimento pe 'l quale allora, come il poeta cantava, arte e na tura la diedero veramente maestra al mondo. E di quella arte fu egli il Petrarca rinnovatore e cultore; e, quale ei ci si mostrò su 'I Gebenna, tale lo ve diamo ancora con gli occhi della mente, nobile e affettuosa figura, nella storia cosí della patria come della coltura e della poesia. Egli esce dalle torbide e fredde nubi del medio evo: tra raggiante e pensoso contempla su la collina frondosa di quel che i suoi poeti provenzali chiamavano la stagione del rinnovellamento: l'aura de' nuovi tempi gli batte nel viso lacrimoso d'amore e di entusiasmo per la pa tria, per le arti ritrovate, per le glorie dell' antichità. ch' ei vede propagarsi nell' avvenire: la sua dolce,

la sua gloriosa, la sua santa Italia gli si distende magnifica intorno:

te laetus ab alto

Italiam video frondentis colle Gebennae.

Nubila post tergum remanent: ferit ora serenus
Spiritus, et blandis assurgens motibus aër
Excipit. Agnosco patriam gaudensque saluto:
Salve, pulchra parens: terrarum gloria, salve!

Ond' è che cinquecento anni dopo la morte di lui noi italiani ci raccogliamo intorno al suo sepolcro per commemorare grati e reverenti uno dei patriarchi della nazione; e le cólte genti d' Europa convengono e consentono a onorare il padre del Rinascimento e il poeta.

II.

Il Petrarca, come poeta italiano, se allontanasi dall'antichità ch' ei proseguí in tutte le altre opere sue, non allontanasi meno dal medio evo. Co' suoi predecessori lirici di Provenza e d'Italia ha comuni sol l'argomento l'occasione e alcuni abiti esterni: del resto, la sua poesia non è la canzone di consuetudine cavalleresca del Borneil e del Daniello, non è la canzone scolastica o la ballata popolare del Cavalcanti, non è la nuova canzone mistica o allegorica dell' Allighieri. Questo giovine, che erra solo e pensoso pe' campi, evitando le vestigia degli uomini, e, come l'omerico Bellerofonte, divorandosi il cuore, non ha che fare nelle sale feudali e co' sollazzi dei trovatori; anzi, assomiglia già un

poco al Werther. È uscito per tempo dalle logge eleganti e severe, ma troppo rinserrate, della scuola di Bologna e di Firenze, e par che mostri un principio delle irrequietudini di Aroldo, quest' uomo, il quale si aggira per la Francia, per il Belgio, per la Germania, su l'oceano britannico, su le coste di Spagna, per tutte le città d'Italia, comincia una canzone in un castello della campagna romana e la finisce forse su le rocce d'Irlanda, prende a scrivere un poema latino in Valchiusa e lo riprende in Selvapiana, coglie, come fiori silvestri, sonetti a' pié dei faggi delle Ardenne, e ama spargerli come foglie di rose su le navigate correnti del Reno, del Po, del Rodano, della Durenza. Questo poeta che, nel fiore della gioventú, tra le lusinghe della fama e dell' amore, lascia un bel giorno lo strepito di Avignone per l' aspra solitudine di Valchiusa, si fa romito per piú securamente scrutare tutti i seni del suo cuore ammalato, per inseguire a suo bell' agio con triste voluttà nello specchio della natura eternamente vario i fantasmi dell' amor suo e delle sue malinconie; questo poeta, dico, non è un eremita della Chiesa, e ha qualche lontana somiglianza con Obermann e con Renato. Certo che non bisogna spingere troppo oltre tali paragoni, i quali non ho posti io: vogliam dire soltanto, che il Petrarca fu primo a sentire e a fare quel che i poeti antichi non fecero, quel che il cristianesimo non permetteva se non a fine d'ascetica mortificazione, a sentire cioè che ogni anima d'indiduo può avere una storia come la storia umana, che in ogni ora della vita può

svolgersi un poema, che un piccolo e intimo avvenimento, se ha lunga eco in un cuore umano, può averla nella lirica: vogliam dire che il Petrarca fu primo a denudare esteticamente la sua conscienza, a interrogarla, ad analizzarla; e ciò facendo avvertí, quel che è il significato vero e profondo della sua elegia, il dissidio tra l'uomo finito e le sue aspirazioni infinite, tra il sensibile e l'ideale, tra l'umano e il divino, tra il pagano e il cristiano.

Ma il Petrarca non si sgomentò, e cominciò a svolgere gentilmente l' umano dalle fasce teologiche nelle quali lo aveva stretto il medio evo, lo sollevò e ricreò da quelli annegamenti nel divino a cui la mistica lo abbandonava. Prima di lui, all'infuori dell'epopea, nazionale di natura sua e sociale, l'arte era tra due termini o, meglio, tra due precipizi, la santità e il peccato, lo sfinimento ascetico e la materialità grossolana: in mezzo, brutto e pericoloso. ponte, la convenzione o cavalleresca o scolastica. Il Petraca senti che la natura non è condannata, che non è abominazione quello che umanamente si agita in un petto d'uomo, che il bello è bene, che la vita ha il suo ideale, che l'anima si nobilita da sé idealizzando sé stessa; e fuor delle convenzioni e dei compromessi, levò, come il sacerdote l'ostia, il suo cuore al dio dei cristiani, cantando: Benedici.

Il tremore religioso e il dissidio rimangono pur sempre in quella poesia, aggiungendole una grazia una tristezza una verità tutta sua; ma in somma l'essenza del canzoniere è questa: il poeta, da una parte, nobilitando a mano a mano la sua passione,

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