DÍ Ignor, se d' Inni al reo costume infesti Armo la Cetra, e cento a un tempo, e cento Poetiche saette a i Vizi avvento, E' tua quest' Opra, e favor tuoi son questi. Prendi l'arco, e gli strali, a me dicesti E scocca. Il presi, ed al gran colpo intento Pregai, che penne di propizio vento Sen portasser gli strali agili, e presti. Ma spinto i venti avrian lo strale in vano, Se a ferir gli empi Mostri, al braccio mio L'alto tuo non s' unìa braccio Sovrano. Tal con quel dardo, onde salute uscìo, D'Eliseo la man del Re alla mano Le Sirie squadre a saettar s' unio. A Voto d' Eternità per le sue Poesie. SE grazia il vinto al vincitor veruna Chieder puote, o mercè, nel grande atroce Mio terribil naufragio, odi, Fortuna, D'un naufrago meschin l' ultima voce. Calma non chieggio a' miei pensier; che alcuna Calma i miser non hanno; e già veloce Nel Mar di morte la turbata, e bruna Onda va de' miei giorni a metter foce. Nè chieggio il nuoto, onde poteo 1' oppresso Cesare, ad onta dell' Egizie squadre, Campar gli Scritti, e preservar se stesso. Chieggio sol, che alle mie poco leggiadre Rime se sperar vita unqua è concesso ) Abbian vita le Figlie, e pera il Padre. Nelle disgrazie. SONET TO III. Tra il forte Ibero, e il Lusitano invitto Del Mondo ignoto a ripartir le imprese, Linea dall' Austro all' Aquilon si stese, Che'l termin fisse ad ambedue prescritto. E la Fortuna di sua man soscritto Fe meco un patto, che a novelle offese, Non farebbe oltra 'l segno unqua tragitto. Sopra lo stesso Soggetto. SONET TO. IV. Glunto quel Grande, ove l' altrui gran torto E'l suo duolo il guidò ramingo, e vago, Spettacolo infelice, aspro conforto Cartago a Mario fu, Mario a Cartago. A lui quella dicea: Chi qua ti ha scorto Ne' miei scempi a mirar de' tuoi l'imago, Ed egli a lei: Ne' tuoi naufragi il Porto Trovo ai propri naufragi, e in te m' appago, Così un dì nel mio volto al dolor mio Mostrai'l suo volto; ed egli in se i mie' guai Coll' energia d' un guardo a me scoprio. E disse: ascolta il tuo Destin. Sarai Sempre misero, e in pene: Allor diss' io In pene sì, ma in servitù non mai, Sopra lo stesso Soggetto. SONETTO V. Non tanta folla: entrate a poco a poco Pene, affanni, e sconforti entro 'l mio core. Qual di voi rimaner può mai di fuore, Se aperto è 'l varco, e in poter vostro è il loco? Parvi'l mio sen forse incapace? O poco A voi noto è l' ospizio? A tutte l'ore Pur vi accolsi, e del pianto, e del dolore Ospite sempre, e del Destin fui gioco. Nè fia timor, che dissipato il folto Vostro ampio stuolo, de' Piacer la schiera In me s' accampi, e siavi 'l Campo tolto. Ch'io non ebbi giammai letizia intera; E in me la Sorte incrudelì più molto Placida, e molle, che sdegnosa, e fiera Morte della Speranza . SONETTO VI. Plangesti, Roma, e in te si vide impressa Ira, e pietate allor, che in fiere guise Il non suo fallo in se punio l'oppressa Donna, e del casto sangue il ferro intrise, E piansi anch' io, quando mia speme anch' essa Priva di speme alla sua man commise Di se stessa l'eccidio, ed in se stessa I propri oltraggi, e, le mie brame uccise. Ambo dunque piangemmo; e ad ambo insieme Diè sventura diversa ugual dolore, F d'ugual gioia i nostri guai fur seme. Lucrezia uccisa; e a me l' uccisa speme Q Sopra lo stesso Soggetto. SONETTO VII Uando al gran Corpo del Romano Impero Fer le proprie ruine ombra, e sostegno, Gli fu men, che non parve, il Ciel severo, E di più vite il suo morir fu pegno. Che dal regio suo cenere potero Scettri nascer novelli; e quel sì degno Tronco allor, che sue frondi al suol cadero, Seminò Regi e fe ogni fronda un regno. Tal dell' altera giovenil mia spene Cadde l'Impero; e del suo tronco al piede Nacquer d' Imperi, e Scettri alte vermene; Ch'ove un tempo il mio cor fu Trono, e Sede Sol della Speme; or signoria vi tiene Sofferenza, Umiltà, Coraggio, e Fede." Speranza Terrena . SONET TO VIII. Non tel dissi, Alma mia, che un dì saresti Trofeo dell' empia micidial tua Speme? Di pena in pena alle miserie estreme, Svelò Cassandra, e ne fer preda i Venti. Che quando avvien, che sovra l' Alma impero Abbia la Speme, e cecità diventi, Dei mali è 'I sommo il non dar fede al Vero Apri. ALLA FORTUNA, SONET TO IX. I Fortuna, per un solo istante Gli occhi, e 'l crudo sospendi aspro flagello,. Ch' io te chiamo in Giudizio a te davante, E da te cieca a te non cieca appello. Giudice a un tempo e rea, mira le tante Mie gran piaghe mortali, e mira quello, Empio trionfo, che adornar ti vante Sol de' miei scempi, e de' miei guai far bello E se ancor non sei sazia, e invan si chiede. Ragione a te contro te stessa; e dei * Negar Giustizia, e non donar mercede; Nol curo io già; nè degli sdegni, miei: Degna se' tu. Quanto 'l dover concede Sarò quale sono, e si pur tu qual sei. |