Abbandonala, oscura Resta la vita. In lei porgendo il guardo, Cerca il confuso viatore invano Del cammin lungo che avanzar si sente Meta o ragione; e vede Ch'a se l'umana sede, Esso a lei veramente è fatto estrano. Troppo felice e lieta Nostra misera sorte Parve lassù, se il giovanile stato, Dove ogni ben di mille pene è frullo, Quel che sentenzia ogni animale a morte, Lor non si desse in pria Della terribil morte assai più dura. D'intelletti immortali Degno trovato, estremo Di tutti i mali, ritrovar gli eterni Incolume il desio, la speme estinta, Secche le fonti del piacer, le pene Maggiori sempre, e non più dato il bene. Voi, collinette e piagge, Caduto lo splendor che all' occidente Orfane ancor gran tempo Non resterete, che dall' altra parte Tosto vedrete il cielo Imbiancar novamente, e sorger l'alba: Alla qual poscia seguitando il sole, E folgorando intorno Con sue fiamme possenti, Di lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi. D'altra luce giammai, nè d'altra aurora. Vedova è insino al fine; ed alla notte Che l'altre etadi oscura, Segno poser gli Dei la sepoltura. XXXIV. LA GINESTRA, IL FIORE DEL DESERTO. Καὶ ηγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς. E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. GIOVANNI, III, 19. Qui su l'arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null' altro allegra arbor nè fiore, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi De' tuoi steli abbellir i' erme contrade Che cingon la cittade La qual Tu donna de'mortali un tempo, Par che col grave e taciturno aspetto Di ceneri infeconde, e ricoperti Che sotto i passi al peregrin risona; Cavernoso covil torna il coniglio; E biondeggiàr di spiche, e risonaro Fur giardini e palagi, Gradito ospizio; e fur città famose, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi All' amante natura. E la possanza Anco estimar potrà dell' uman seme, In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell' umana gente Le magnifiche sorti e progressive (12). Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl' ingegni tutti Ch' a ludibrio talora T'abbian fra se. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra: Imitar gli altri, e vaneggiando in prova. Mostrato avrò quanto si possa aperto: Preme chi troppo all' età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Sol per cui risorgemmo Dalla barbarie in parte, e per cui solo Così ti spiacque il vero Dell' aspra sorte e del depresso loco Magnanimo colui Che se schernendo o gli altri, astuto o folle, Non chiama se né stima Ricco d'or nè gagliardo, E di splendida vita o di valente |