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Il mattutino albor; me non il canto
De' colorati augelli, e non de' faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
Degl' inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l' odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual si nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde si torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovinezza, e disfiorato, al fuso
Dell' indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è lutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. Oh cure, oh speme
De' più verd' anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,

Per dotta lira o canto,

Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l' ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de' casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D' implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro

Giove, poi che perir gl' inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s' invola.

LEOPARDI.

1.

4

Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra Della gelida morte. Ecco di tante

Sperate palme e dilettosi errori,

Il Tartaro m' avanza; e il prode ingegno

Han la tenaria Diva,

E l'atra notte, e la silente riva.

X.

IL PRIMO AMORE.

Tornami a mente il di che la battaglia D'amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest' è amor, com'ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, Io mirava colei ch' a questo core

Primiera il varco ed innocente aprissi.
Ahi come mal mi governasti, amore!
Perchè seco dovea si dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual l'era noia ogni contento?

Quel pensier che nel di, che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nell' emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando, M'affaticavi in su le piume il fianco, Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre !
Oh come soavissimi diffusi

Moti per l'ossa mi serpeano! oh come
Mille nell' alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome
D'antica selva zefiro scorrendo,

Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentr' io non contendo, Che dicevi o mio cor, che si partia

Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia
Della vampa d'amor, che il venticello
Che l'aleggiava, volossene via.

Senza senno io giacea sul di novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Batlcan la zampa sotto al patrio ostello.
Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea
L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto,
La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quello labbra uscir, eh' ultima fosse;
La voce, ch' altro il cielo, ahi, mi togliea.
Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!
E poi che finalmente mi discese

La cara voce al core, e de' cavai
E delle rote il romorio s' intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi

Stupidamente per la mula stanza,
Ch' altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?
Alarissima allor la ricordanza

Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com'è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove E nove Soli, in questo a pianger nato Quando facevi, Amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
M'era degli astri il riso, o dell' aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.
Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Che di beltade amor vi fea dimora.

Nè gli occhi ai noli studi io rivolgea,
E quelli m'apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me si vario fui,
E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani Siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto,

Alla guardia seder del mio dolore.

E l'occhio a terra chino o in se raccolto, Di riscontrarsi fuggitivo e vago

Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:
Che la illibata, la candida imago
Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all' aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l'anima ci grava,
E il piacer che passò cangia in veleno.
Per li fuggiti di mi stimolava
Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m'entrò bassa nel petto,
Ch'arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l'affetto, Spira nel pensier mio la bella imago, Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

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