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XIV.

ALLA LUNA.

O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle Io venia pien d'angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed é, né cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l' affanno duri!

XV.

IL SOGNO.

Era il mattino, e Ira le chiuse imposte
Per Io balcone insinuava il Sole

Nella mia cieca stanza il primo albore;
Quando in sul tempo che più lieve il sonno
E più soave le pupille adombra,

Stettemi allato e riguardommi in viso
Il simulacro di colei che amore

Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
Degl' infelici è la sembianza. Al capo
Appressommi la destra, e sospirando,
Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
Serbi di noi? Donde, risposi, e come
Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duol: nè mi credea
Che risaper tu lo dovessi; e questo
Facca più sconsolato il dolor mio.

Ma sei tu per lasciarmi un' altra volta?

Io n' ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne? Sei tu quella di prima? E che li strugge Internamente? Oblivione ingombra

I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune. Immensa
Doglia m' oppresse a queste voci il petto.
Ella segui: nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il coro
Certo si renda com'è tutta indarno

L'umana speme. A desiar colei

Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortai; ma sconsolata arriva

La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
Agl' inesperti della vita, e molto
All' immatura sapienza il cieco

Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara.
Taci, taci, diss' io, che tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
O mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma

Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia? Uh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch' io li ritrovi al mondo,
Creder noi posso! Ahi ahi, che cosa é questa
Che morte s' addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre!
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
La qual pavento, e pur m' è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda

Il fior dell' eia mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro; e dilettossi il cielo
De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
Soggiunsi, e di pallor velato il viso
Per la tua dipartita, e se d'angoscia
Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
Favilla alcuna, o di pietà, giammai
Verso il misero amante il cor t'assalse
Mentre vivesti? Io disperando allora
E sperando traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano dubitar si stanca

LEOPARDI.-1.

5

La mente mia. Che se una volta sola
Dolor ti strinse di mia negra vita,
Non mel celar, ti prego, e mi soccorra
La rimembranza or che il futuro è tolto
Ai nostri giorni. E quella: li conforta,
O sventurato. Io di pietade avara
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono.
Che fui misera anch' io. Non far querela
Di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l'amore
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
Nome di giovanezza e la perduta
Speme dei nostri di, concedi, o cara,
Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in allo
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d' affannosa
Dolcezza palpitando all' anelante
Seno la stringo, di sudore il volto
Ferveva e il petto, nelle fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi

Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
E tu d'amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi,
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
La fe che mi giurasti. Allor d' angoscia
Gridar volendo, e spasimando, e pregne
Di sconsolalo pianto le pupille,

Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
Pur mi restava, e nell' incerto raggio
Del Sol vederla io mi credeva ancora.

XVI.

LA VITA SOLITARIA.

La mattutina pioggia, allor che l' ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s' affaccia
L'abitator de' campi, e il Sol che nasce
I suoi tremoli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:

Poichè voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl' infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.

Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,

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