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mondo intellettuale estrinseco, poi dal mondo intellettuale intrinseco, e poi dal mondo materiale; e cantò onnipotentemente prima la caduta d'Italia e dell' antica civiltà, poi quella delle illusioni pubbliche e delle individuali, e poi finalmente il fato, la necessità e la morte. Alla prima specie appartengono più particolarmente i primi sei canti di questa edizione, alla seconda i successivi venti, alla terza gli altri; e tutti appartengono al luttuoso genere di tutte.

Il mezzodì ricercato, nella profondità de' suoi son ni, dall'ineffabile dolcezza del nuovo lamento, lodò a cielo l'armonia che glieli accompagnava, e si sdegnò dell'alto dolore che glieli rompeva. Ma il settentrione, svegliato e destro a seguitare il secolo in tutte le sue vie, sentì più la grandezza dell'uno che la squisitezza dell'altra; ed un gran poeta tedesco pronunziò che quella gran poesia italiana ch'era nata sulle labbra di Dante, era morta alla fine sopra quelle del Leopardi.

Poscia che il Leopardi ebbe applicata la sua fantasia all'universo, e ritrattone tutte le forme del gran mistero del dolore, si spinse finalmente ad applicarvi il secondo elemento del suo ingegno, l'intelletto, ed a penetrare la sostanza di quelle forme: e si rivelò gran filosofo.

Ma il trovare quel che è, era ben altro che il dipingere quel che pare! La causa di quel mistero oltrepassa i confini fatali dell'intelletto umano. Più l'intelletto del Leopardi si travagliava d'indovinarla, più quella sembrava allontanarsegli ed alla fine dileguare. Allora quel gran pensiero che si era creduto onnipotente, prima s'adirò ferocemente col limite, ch'egli chiamò fato; poi

si diffidò d'oltrepassarlo; poi, scambiato l'effetto colla causa, sentenziò che il dolore solo era il vero. E come aveva letto il dolore in tutti; e cantato il dolore da per tutto; spiegò il tutto col dolore.

Applicando il suo prodigioso intelletto all'universo, egli seguì l'ordine stesso che aveva seguito quando v'applicò la fantasia; e, nelle sue Operette morali e nella sua Comparazione di Bruto minore e di Teofrasto, egli spiegò col dolore prima il mondo intellettuale estrinseco, poi il mondo intellettuale intrinseco, e poi il mondo materiale.

Stanco alla fine da un così affannoso e sterminato viaggio, fatto già quasi insensibile alle loro punture, s'adagiò sulle spine stesse del suo dolore; e risolute le tre scienze, onde aveva tentato l'universo, come in una vasta pozione sonnolenta, vi bevette a larghi tratti l'obblio di tutto l'ente e di se stesso. Ultimamente, smaltita la fiera bevanda, si ridestò; e della potente assimilazione di quella si valse a sorridere, ora sdegnosamente, ora mestamente, ora amaramente, del tutto. I Pensieri e i Paralipomeni (4) sono la manifestazione di questo triplice e spaventevole sorriso (5).

Tale fu l'ingegno del Leopardi, e tale la sua storia, considerato nella sua sostanza o, se eziandio si voglia, nella sua forma intrinseca. La forma estrinseca, nella quale esso si manifestò agli altri uomini, fu la più bella che fosse mai assunta dalla più bella lingua parlata. Egli scriveva greco, latino e italiano antico da mentire un antico: e come nel 17 i filologhi tedeschi avevano tolte per antiche e vere due Odi greche (l'una ad Amore e l'altra alla Luna) e un Inno a Nettuno, medesima

mente greco, del quale fu finta darsi la sola versione e le note; così nel 26 il Cesari tolse per antico e vero testo di lingua il Volgarizzamento del Martirio de'santi padri. Ma la forma vera e spontanea in cui quel prodigioso ingegno si manifestò, e nella quale noi dobbiamo veramente studiarlo, fu la lingua italiana odierna. In questa egli sciolse l'antico problema di dire tutto puramente e potentemente; e mostrò che il grande scrittore dee e può essere giusto sovrano e non oppresso suddito della lingua. Mai nessun linguaggio umano non ubbidì più spontaneamente a nessun uomo di quel che la nostra lingua ubbidisse a questo inimitabile scrittore. Forte ed avventato nei primi sdegni concitati in lui da quel dolore ch'egli sentiva palpitare non meno nella sua propria vita che nell'universale, fiero e terribile nella disperazione che gliene seguì, grave ed ineffabilmente semplicissimo nel sopore della stanca rassegnazione ch'ultimamente lo invase, il suo stile rappresentò a un tempo la varietà, l'unità e la perfezione dell'universo, disse tutto in tutti i modi in cui poteva essere detto, e fu grande e vivo esempio che la parola umana è, se può arrischiarsi il vocabolo, la sintesi del mondo, e si arresta solo nel confine che separa il mondo dall'infinito.

Oltre a così potenti cagioni, l'incanto che il suo stile operava o in versi o in prosa, consisteva nella perfezione della proprietà e dell'ordinamento delle parole. Egli ritrasse l'artifizio dal cinquecento, la semplicità dal trecento, e l'essere proprio e particolare del suo stile, prima dai greci, sommo esempio di perfetto, e poi dal suo secolo e da se stesso, onde l'uomo dee ritrarre innanzi tutto. E non ostanti i suoi sterminati

studi, soleva dire che quando lo scrittore loglie la penna, dee dimenticare il più possibile che v'è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.

Estimava assai più difficile l'eccellente prosa che gli eccellenti versi, perchè diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l'altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di potere tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi colle più difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità, che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Manuzzi fece sì prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell' Interpretazione del Petrarca, come s'abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitalo a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d' Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell'Impresa, di Senofonte, che così come a nessun greco era ancora seguilo di rivivere nella lingua italiana, così a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l'intempestiva morte e, forse, la mistica diversità onde questi due divini ingegni contemplarono l'universo, non è dubbio ch'egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande nuova era delle lettere italiane.

Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua pro

pria essenza, ma ancora nelle varie forme onde si è venuto di mano in mano palesando, è tempo ormai di considerar l'uomo tutto insieme nelle sue attenenze, o accidentali o naturali, sia cogli altri uomini sia con se medesimo; e, io somma, ne' suoi successi e ne' suoi costumi.

Nato sulla cima d'un monte (dove l'antico Piceno si piacque di porre le sue città), d'una famiglia gentile, costumata e religiosa, la tenerezza paterna e fraterna, il cielo, le stelle, la luna nascente dall' acque e il sole cadente dietro le lontane vette dell' Apennino, furono i suoi primi sentimenti e le sue prime gioie. Egli si preparò alla vita come a un giorno festivo; e le sue prime parole furono una benedizione degli uomini e della Datura che parevano così carezzevolmente accompagnarlo. Ma poi che la provetta età e la smisurata altezza del suo ingegno gli ebber renduta più necessaria la grandezza dei concittadini che la bontà dei consanguinei, ed il male inemendabile che poscia l'estinse, gli ebbe penetrato talmente l'ossa e le midolle che le nevi della montagna non gli furono più sopportabili, nell' acerbezza de' suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta, dispregiò gli uni e maledisse l'altra, e, benchè insino alle lacrime dolentissimo de' suoi cari congiunti, il più costante desiderio della sua vita fu d'andarne a vivere altrove.

Spinto da così fieri stimoli, nel novembre del 22 venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella più che umana antichità ch' egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscia s' involse non

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