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§ III. In dogmatibus moralis negotii, etc. Per il negozio morale s'intende l'Etica, come risulta dal § XVI: morale negotium, sive ethica. Ciò rettamente fu notato dal Witte, ma per bene accertare il concetto del nostro autore, vuolsi considérare che due sono le vite umane, la contemplativa e l'attiva o civile (Con. II, 5; IV, 17); quella riposa nell' ozio della speculazione (ivi, I, 1), e questa si esercita nel negozio della morale pratica (dell' etica) o vogliam dire nell' operazione delle virtù morali; l'una s'appaga del vedere, l'altra dell' operare: Par. XVII, 108.

Amicitiam adæquari et salvari analogo doceatur. Il Witte, derivata questa leziene dal cod. mon. s'avvisò di approvarla con quello del Con. III, 1: « Nell' amistà delle per» sone dissimili di stato conviene a conservazione di quella » una proporzione essere intra loro che la dissimilitudine a » similitudine quasi riduca, siccome intra il signore e 'l » servo. » Senonchè invece di adæquari o del volgato ad quam, son di credere che sia a scrivere adfirmari, perchè ne' sovraccennati luoghi dell'Epistola e del Convito, si ragiona soltanto dell' analogia, mercè cui si conserva e perpetua l'amicizia. D'altro lato una qualche analogia o somiglianza fra persone dissimili di stato, non rende intra esse eguale l'amicizia, ma, come s'è poc' anzi veduto, vale a generarla in qualche modo. In somma, possono gli uomini restare dispari di condizione, disuguali in più guise, e pur tuttavolta aver tra loro alcuna proporzione o relazione di similitudine e quindi amicizia. Le parole del Convito, dove s'illustra ed esemplifica il premostrato insegnamento, danno sicuro valore alla correzione che io pur non ardisco di fare. « Avvegnachè il » servo non possa simile beneficio rendere al signore, quando » da lui è beneficato, deve però rendere quello che migliore » può con tanta sollecitudine e prontezza, che quello che è » dissimile per sè, faccia simile per lo mostramento della » buona volontà, la quale manifesta l'amicizia e ferma e >> conserva. » Or qui s' ammiri la costante dottrina dell' Allighieri e la stessa impronta di verità nel Convito e nell' Epistola a Cangrande.

La volgata dopo analogiam fa seguitare qui semel, che

al Torri parve soverchio, forse perchè il conobbe errato. Ma l'errore svanisce, mediante il cod. mon., dove il Witte potè leggere plus quam semel, che ben corrisponde a sæpe del periodo susseguente.

Digniusque gratiusque. Siffatta lezione, la quale si conforma alla verità e rende intero il costrutto, è del cod. mon., donde l'accorto Witte traendola, riuscì poi a distrigarla. Le stampe in prima leggevano dignum, il cod. magl. dignusque e quindi il Torri col Dionisi dignumque quid cuiusque; ma tutto ciò, più che altro, basta a spiegare come un testo, una volta male appreso, possa trasformarsi nelle più strane maniere.

Neque ipsi præeminentiæ vestræ. Con ipsi il Dionisi emendò la volgata ipsum, ma nè l' un nè l' altro si ritrova nel cod. mon., ed io insieme col Witte lo rifiuto, perchè evidentemente superfluo.

Et illam sub præsenti, etc. Dante protesta bensì di voler ascritta, offerta e raccomandata allo Scaligero la sublime cantica del Paradiso: a lui anzi, come propose di destinarla (§ V), n' anticipa il possesso; ma or non gliene presenta compiuto, se non il primo canto: a primordio: § IV. Il che sta di fermo, nè quindi importa il sapere, se poi Dante o i suoi figli inviassero allo Scaligero tutta o in gran parte quella cantica, si basta che gli fosse dedicata. Ed è appunto per questa dedicazione, che il poeta vieppiù si travagliava e diveniva magro intorno al suo ultimo lavoro, per affrettarne il compimento. Perciò disse: Vitam parvi pendens, a primordio metam præfixam urgebo ulterius.

Tamquam sub epigrammate proprio dedicatam. Questo viene a dire « come se l'aver io intitolato Paradiso quella cantica, fosse stato un dedicarla a Voi, cui si augura e prega vita per diuturni tempi felice. »

§ IV. Plus domino quam dono. Così interpreto io per contrario ai testi vulgati « plus dono quam domino » e diversamente dal Witte e dal Torri, perchè qui l'Allighieri si scusa di troppo ardimento: ciò che non bisognava, se per quella donazione ei si fosse aspettato più di onore, che non poteva tornarne al signor di Verona. E quanto vien in se

guito certifica il mio supposto; essendochè Dante afferma, che col solo titolo di Paradiso, ond' ebbe insignito quella cantica, pareva agli attenti riguardatori, aver egli espresso un presagio della crescente gloria del magnifico suo proteggitore. La sovresposta conghiettura, che da alcuni anni io aveva manifestata, acquista al presente il pregio della verità, perchè il cod. mon. legge appunto plus domino quam dono. Ed il benemerito Witte, cui la verità preme sovrattutto, nell' approvare la nuova lezione, aggiugne « Rectum iamdudum divinaverat Julianus. » Eph. Arc. tom. CXVII, pag. 77, 78. Questo non rammenterei io al presente, se non per iscusarmi di quelle correzioni a cui pongo talora mano ardita, e donde pur rifuggo, semprechè il contesto del discorso, i sentimenti e le parole del Poeta, quali occorrono nell' una o nell' altra delle sue opere, non mi vi astringano quasi di forza. A ciò forse badando l' egregio Fraticelli, si compiacque di accreditarle quasi tutte nella sua nuova e pregiata edizione delle epistole di Dante, fatta nel 1857.

Conferri trovasi nel cod. mon., ed anch'io col Witte lo preferisco al vulgato ferri, dacchè mi si mostra più corrispondente a « retribuendum pro collatis beneficiis. »

Il cod. med. porta quidni? quello di mon., quid mirum ? ma sono d'avviso, che la miglior lezione sia la comune quinimmo, perchè indi le cose premesse si rincalzano.

Seguitando il cod. mon. e il Witte, aggiungo per tutta chiarezza vestri a nominis e tolgo poi mihi dalla volgata « satis attentis mihi videbar » per non offendere la verace intenzione dell' Autore. Il quale ivi ne fa risapere, che agli attenti riguardatori di quel titolo della terza cantica del suo Poema sembrava che egli, come pur s' era proposto, avesse presagito la gloriosa felicità dello Scaligero.

Sed tenellus gratiæ vestræ importa il medesimo che « entrato di recente, novello nella grazia vostra. » Contro a ciò punto non rileva, che il Poeta fosse già stato alla corte di Verona non molto dopo l'esiglio e poi di nuovo nel 1308, perchè allora Cangrande era tuttavia giovinetto, nè tale, che la grazia di lui si dovesse tener in pregio e ricercare. Onde non deve farci maraviglia, che Dante si chiamasse nuovo

nella grazia di quel signore, quando tra il 1316 e 1317 potè rivederlo e consacrare a lui vittorioso la già ordita cantica del Paradiso. Nè accade opporre, che tenellus gratiæ vestræ non essendo di buona latinità, potrebb' essere indegna frase dantesca perocchè somiglianti barbarismi non si disdicono all'autore Eclogarum, De Monarchia e De vulgari eloquio. Per le quali cose io non potrei accordarmi col Witte, il quale in luogo di tenellus e di vitam parvipendens consiglia di leggere, giusta il cod. mon., zelus e nostram parvipendens, trasmutando ancora gratiæ vestræ in gloriæ vestræ. Nulla di questo si richiede all' uopo: dappoichè quanto alla gloria augurata allo Scaligero, già a sufficienza se n'è parlato precedentemente, e la particella sed mostra che il discorso or si rivolge e congiunge ad altro. Oltrechè sitio si vuol riferire a cosa spettante non a Cane, si bene al solo Allighieri. Nè del rimanente si può credere che questi poco dovesse curare della sua propria gloria per lo zelo di quella del magnifico signore, dacchè l' una all'altra per facile modo sarebbesi collegata. Laddove non appar disconvenevole, che Dante per amor della maggior grazia ch' ei s'aspettava dallo Scaligero, si consumasse la vita a fin di ridurre a perfezione l' ardua cantica del Paradiso, la quale gli aveva destinato: § V.

Sub lectoris officio non significa già in servigio del lettore, secondo che s' interpreta dal Missirini, nè manco nell' utilità del lettore, com'è nella traduzione del Dionigi, si veramente per ufficio di lettore od espositore, cioè a modo che suol farsi dai lettori, i quali spiegano dalla cattedra un qualche trattato dottrinale. Lettura per insegnamento, lettoria, spiegazione, e cosi leggere per dichiarare, insegnare e simili, occorrono di frequente presso i buoni scrittori: Par. X, 137, XXXIX, 71, 75. Filippo Villani chiama per appunto espositore di un libro chi si assume l'ufficio di farne pubblica lettura o commentazione: V. n. al § 7.

§ V. Sicut dixit Philosophus. Questa forma di ragionare è tutta propria di Dante, il quale con invariabile tenore procede nelle sue dottrine, nè mai per opera le contradice: Necesse est in qualibet quæstione habere notitiam de principio, in quod analytice recurratur, pro certitudine omnium proposi

tionum quæ inferius assumuntur: Mon. I, 2. Quæs. de duobus, etc. § 21.

Sicut res se habet, etc. Unumquodque sic se habet ad esse, ut ad veritatem. Arist, II, Metaph. c. I, tex. 4, pag. 45. Imperocchè ogni cosa consiste o vogliam dire ha il proprio essere nella verità come in suo soggetto, e questa verità importa una perfetta similitudine della cosa con sè stessa, cioè col suo essere speciale. Quindi appare che il dire una cosa è (Inf. XXIII, 31; Purg. VII, 12. Par. XIV, 63) torna il medesimo che affermarla vera, nè potrebbe mai la verità di una cosa disgiugnersi dall' essere appropriato alla cosa istessa; talmentechè, se la cosa nel suo essere dipende da un' altra, ne dipende pur anche rispetto alla verità.

Ut relativa « pater et filius, etc. » Siffattamente, avuto risguardo al migliore costrutto, mi parve doversi emendare la volgata «ut relativa sicut: pater et filius, etc. » Pater est id quod est per formam accidentalem, quæ est relatio per quam sortitur speciem quamdam et genus, et reponitur sub præœdicamento ad aliud, sive relationis: Mon. III, 2.

§ VI. De parte supra nominata totius Comœdiæ. Così il cod. med., ma in tutti gli altri manca totius, nè sembra da aggiugnervisi, essendo che il tutto è la stessa Commedia.

Per modum introductionis deve riferirsi alle parole precedenti, non a quelle che seguono, perchè ha da corrispondere ad « aliqualem introductionem tradere de parte. » Inoltre l'introduzione al tutto vien dinotata bastantemente per ciò che si soggiugne: «aliquid de toto opere præmittendum existimavi.»

In principio cuiusque doctrinalis operis. Di qui si vede, che il sacro Poema dovette dal suo autore prendere pur anche forma d' un'opera dottrinale. Ed in fatti, chi attentamente il disamini e in tutte le sue parti, non tarderà a ravvisarvi un compiuto trattato di scienza morale si filosofica che teologica, come quello cui posero mano e terra e cielo, l'umana ragione vo' dire e la divina autorità: Par. XXV, 2. Mon. II, 1.

Subiectum, agens, forma, finis, libri titulus et genus philosophia. Il Foscolo e il Taeffe e dopo essi il Witte ne A Comment en the D. C. 1, p. 63.

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