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come pel sapere, che dovendo spedire un ambasciadore alla regina Giovanna di Napoli, allora in età di 18 anni, scelse il Petrarca stesso, il quale seppe compiere in modo così soddisfacente il suo ufficio che la regina per renderselo maggiormente accetto l'investi del titolo di suo cappellano particolare. Ma la corruttela dei costumi di quella corte non andandogli a sangue, poco vi si trattenne, e parti probabilmente per Valchiusa, dove nel 1343 gli nacque una figliuola dalla medesima donna, che alcuni anni prima gli aveva partorito Giovanni. In quel torno si era sparsa la voce che il Petrarca fosse morto, e già molti poeti ne avevano deplorato in versi la gran perdita, fra i quali messer Antonio dei Beccari ferrarese, cui il Petrarca scrisse il sonetto, Quelle pietose rime, ecc., per rassicurarlo che veramente era corso infino all'uscio dell'albergo della morte, e che veduto scritto sul limitare non essere giunto il tempo prescritto al suo vivere, se n'era tornato indietro. Ma per rendere maggiormente certi gli amici suoi della sua salute si dispose a visitare un' altra volta la Lombardia. Trovativi quei della casa Correggio divisi, le pianure lombarde corse e depredate dalle compagnie di ventura, l'Italia tutta in preda agli orrori della guerra, non vi si fermò lungamente è rivolse i passi alla sua cara solitudine di Valchiusa. Ma oramai sia che fosse allettato dalle tante e bellissime accoglienze che per ogni parte riceveva, sia che l'abito contratto del continuo viaggiare gli rendesse dopo alcun tempo noioso il soggiorno di Valchiusa, o sia che non sapesse resistere ai caldissimi inviti che da ogni banda gli venivano, il fatto è che nel 1345 lasciata ancora Valchiusa, andó a Parma e poscia a Verona dove Azzo l'attendeva. Gli amici di Avignone, il Colonna, il papa lo stancavano con lettere affettuosissime affinchè non rimanesse lontano da loro, ed egli passando per la Svizzera si riconduce ad Avignone. Nel 1347 scoppia in Roma la rivoluzione, e giunge all'orecIchio del Petrarca la notizia del trionfo di Cola di Rienzi. Questo evento lo commuove, lo agita; crede che l'antica virtù nei romani siasi ridestata, che l'antico splendore della repubblica sia per rivivere, non ha più pace, vorrebb'essere a Roma per dargli consigli, per guidarlo; gli scrive lettere sopra lettere, lo anima a perseverare nella santissima impresa, e intanto parte egli stesso. Giunto a Genova e informato della condotta del tribuno e del macello dei Colonna smette il pensiero di correre a Roma e s'indrizza invece a Parma, poi a Verona. Frattanto sopravvenne il 1348, e la peste, così vivamente descritta dal Boccaccio, mieteva in quell'anno a migliaia le vite, fra le quali quella di madonna Laura che spirava l'anima il 6 di aprile, se vogliamo stare

ad una nota trovata in fronte al celebre suo codice di Virgilio esistente nell'Ambrosiana di Milano, che dicesi scritta di suo pugno. Il Petrarca n'ebbe la notizia in Parma il 19 maggio.

Poco dopo la morte di Laura perdè altri amici carissimi cioè il cardinale Colonna, Luca Cristiano e Mainardo Accorso e Sennuccio del Bene ch'era stato messo a parte de' suoi secreti amori. Nell' andare a Mantova da Luigi Gonzaga volle soddisfare al suo desiderio di visitare il piccolo villaggio di Andes, ora Pietola, che fu la patria di Virgilio. Non potendo reggere alla vista delle discordie che dilaniavano l'Italia scrive nel 1350 una lettera all'imperatore Carlo IV perchè scenda a ristorarla dai mali, essendo tuttora viva la speranza anche nei sommi ingegni di quel tempo che dalla venuta degli stranieri potesse derivare alcun bene alla patria. L'imperatore gli rispondeva dopo l'intervallo di un triennio. In quell'anno stesso era bandito per tutta la cristianità il giubileo. Il Petrarca il quale oltre di essere religioso aveva pur de'peccati da farsi perdonare, si mise in viaggio per Roma passando per Firenze. Questa fu la prima volta che vide la culla de' suoi parenti, e strinse un'amicizia più intima col Boccaccio, il quale aveva nove anni meno di lui. Nel tornare indietro da Roma volle rivedere le native mura di Arezzo che lo accolse splendidissimamente. Nel 1351 proseguendo il suo viaggio arrivava la seconda volta in Firenze, che vergognandosi forse di non avergli ancora dimostrato quel rispetto e quella benevolenza ond'era fatto segno universalmente, lo reintegrava nei beni de'suoi padri e nei diritti di cittadino fiorentino. Anzi per onorarlo maggiormente, la Signoria per mezzo del Boccaccio gli offriva la carica di rettore della università che si era testè aperta in Firenze. Ma il Petrarca amando sopra tutto la sua libertà, non accettò. Nel 1352 s' avvia da Firenze a Padova, e nel suo arrivo apprende la morte del suo amico Giacomo da Carrara, il quale era stato assassinato da un parente. Non è a dírsi quanto gli sia giunta dolorosa una tale notizia; nondimeno vi si fermò per appagare le insistenti preghiere del figlio di Giacomo che al pari del padre lo aveva in somma venerazione. Da Padova faceva di quando in quando qualche gita a Venezia, e in una di queste ebbe l'occasione di conoscere personalmente il doge Andrea Dandolo, uomo di grandissime virtù col quale entrò in grande amicizia e famigliarità.

Ritorna a Valchiusa dove l' attendevano i suoi cari libri e il campicello, e passa il suo tempo or in villa ora in Avignone dov'è testimonio della morte di Clemente VI, e della elezione di papa Innocenzo VI, che il poeta non vollé vedere

perchè uomo ignorante. Va a Milano dove l'arcivescovo e duca Giovanni Visconti lo colma di feste e d'onori e se ne serve in qualità di ambasciadore. Carlo IV imperatore sceso in quei giorni in Italia, lo chiama a sè in Mantova,gli fa le più onorevoli accoglienze e vuole condurlo seco a Roma nella fausta occasione del suo incoronamento. Ma il Petrarca se ne scusò con belle maniere, non avendo forse più alcuna fiducia in lui pel bene della sua patria. Infatti l'imperatore lasciava l'Italia come l'aveva trovata, contento di esserne partito, come dice uno storico, con le tasche piene di quattrini. Nel 1356 Galeazzo Visconti lo manda ambasciadore a Basilea; ivi attese in vano per un mese l'imperatore, e come prima ne fu uscito, per proseguire il suo viaggio a Praga, un terremoto distrusse quella città. A Praga incontra l'imperatore, compie la sua ambasciata, e se ne ritorna a Milano rassicurato e col diploma di conte palatino. Nel 1357 gli intensi calori della estate lo consigliano a ritirarsi in una bella casina di campagna a poche miglia da Milano, nel villaggio di Garignano ch' ei chiama Linterno. Visita spesso la Certosa ed ivi terminò nel 1358 l'opera sua, De remediis utriusque fortuna. Nel copiare un grosso volume delle epistole di Cicerone che era coperto di legno, questo gli cadde sulla gamba sinistra, e gli cagionò una piaga, per cui fu ad un pelo a non avere amputata la gamba. Riavutosi da quella malattia si recò a Bergamo, dove volle alloggiare di preferenza in casa di un orafo per nome Capra, il quale era veramente rapito di stima ed amore per lui. Nel 1359 il Boccaccio si recò a visitarlo in Milano, e il Petrarca gli regalò un esemplare delle sue egloghe latine, scritto di proprio pugno. Il Boccaccio in contraccambio, quando fu giunto a Firenze, gli spedi una copia del poema dell' Allighieri trascritta da lui stesso. Il re Giovanni di Francia, che aveva dato in isposa la sua Isabella al figliuolo di Galeazzo Visconti, nella famosa battaglia di Poitiers era stato fatto prigioniero dagli Inglesi. Nel 1360 liberato Giovanni dalla sua prigionia, il Visconti gli mandò ambasciatore il Petrarca a rallegrarsi della ottenuta libertà. L'imperatore desiderava ardentemente di averlo a corte, gli mandava un caloroso invito e lo accompagnava col dono di una coppa d'oro di mirabile valore. In quel torno la Lombardia era tribolata dalla guerra e dalla pestilenza, onde il Petrarca parte per Padova ed ivi si riconcilia col figliuolo Giovanni, il quale gli aveva cagionati grandissimi dispiaceri. Poco dopo di essersi rappattumato col padre, Giovanni muore. Il Petrarca ne rimane fortemente addolorato : la sua tristezza è al colmo da tutte parti gli fioccano inviti per distrarlo e racconsolarlo. Ma il poeta vuole ritornare alla sua beata e

solitaria Valchiusa. Vi s'avvia, giugne fino a Milano, poi mutato pensiero vorrebbe andare in Allemagna per appagare il desiderio dell'imperatore, ma n'è impedito dalle compagnie di ventura. Ritorna in Padova, n'è cacciato dalla peste del 1362, e si ritira in Venezia con tutti i suoi libri ond' eran carichi parecchi cavalli. Giunto a Venezia, stanco di quell' ingombro che dovea costargli ingentissime spese, prende la risoluzione di farne un dono alla repubblica, che li accetta e con un decreto assegna un palazzo al poeta e ai libri che andarono poscia dispersi. Quivi ebbe il piacere di rivedere l'amico Boccaccio che per la peste di Firenze del 1363 erasene allontanato, e stettero insieme i tre mesi più caldi di quell'anno. Codesta pestilenza gli dirado maggiormente il numero de' suoi più cari amici: morivano in quell'anno Azzo da Correggio, il caro Socrate, Lelio, Simonide ossia Francesco Nelli priore dei Santi Apostoli, e il Barbato da Sulmona. In questo mezzo scoppia una rivolta a Candia: il Senato di Venezia gitta gli occhi su Luchino del Verme per essere comandante delle truppe di spedizione, e prega il Petrarca amico di Luchino di aggiugnere le sue commendatizie alle lettere della repubblica. Luchino accetta l'incarico, parte, vince e ritorna in Venezia festeggiato chiamando a parte de' suoi trionfi il poeta. Muore innocenzo VI e gli succede nel papato Urbano V che faceva concepire di se grandissime speranze. Il Petrarca si affretta a indirizzargli una lettera con la quale il conforta a riporre la sedia pontificale in Roma. Urbano se ne fa persuaso, lascia Avignone il 30 aprile 1367, s'imbarca a Marsiglia e nel mese di ottobre fa il suo ingresso nella metropoli della Cattolicità. Il Petrarca n' è contentissimo e da Venezia gli spedisce lettere di ringraziamento e di congratulazione. Giovanni da Ravenna suo allievo, e poi segretario intimo gli è cagione di noje e disgusti per la sua bisbetica e sconoscente natura, i quali disgusti gli vengono accresciuti dal papa che muove guerra al suo amicissimo Visconti. Galeazzo lo chiama in fretta a Pavia per incaricarlo di un'ambasciata a Bologna presso il cardinale Grimoaldo che era fratello del papa affinchè trovasse modo di rimuovere ogni motivo di conflitto. Il Petrarca vi andò nel 1368, ma non riusci nell'intento. L'Italia era divenuta un campo di stranieri i quali facevano a gara a chi più potesse dissanguarla. Erano al soldo del papa Spagnuoli, Napoletani, Bretoni, Provenzali; servivano l'imperatore Boemi, Schiavoni, Polacchi, Svizzeri; difendevano la causa di Bernabò Visconti Inglesi, Tedeschi, Borgognoni, Ungheresi. Il Petrarca era desolato non solo di una si dura condizione fatta all'Italia, ma di vedere amici suoi che approntavano tante armi stra

niere e barbare per distruggersi a vicenda. Per buona ventura i forzieri di Bernabò essendo ben provveduti d'oro, versatone una parte nelle tasche dell'imperatore Carlo ché era il capo della lega contro i Visconti, la procella fu stornata. Urbano arde del desiderio di vedere il Petrarca, e lo supplica instantemente di andare a Roma. Il poeta sebbene già aggravato dagli anni e di animo non lieto, pure si dispone alla partenza. Ma quasi presago che non gli rimanevano più molti anni di vita, volle fare testamento nel quale lasciava al Carrara signore di Padova un dipinto del Giotto rappresentante la Beata Vergine, e fiorini cinquanta all'amico Boccaccio affinchè potesse comprarsi una pelliccia che lo riparasse dal freddo massime quando lavorava di notte. Giunto a Ferrara cade sfinito, rotto forse dalle fatiche del viaggio. Gli Estensi si affrettano a ricoverarlo nel loro palazzo, gli prodigano tutte le cure dell'arte medica e dell'amicizia, e riesce loro di rimetterlo in salute. Ritornato a Padova, si risolve di andarsi a stabilire in Arquà sui colli euganei. Fattasi quivi costrurre una casetta, andò a dimorarvi in compagnia della figliuola e del genero Francesco di Brossano. In quel sito ameno pareva che gli crescesse la lena allo studio, e tanto lavorava che appena gli bastavano cinque segretari. Ivi dava l'ultima mano all'opera De ignorantia sui ipsius et multorum. Il medico suo Giovanni Dondi lo consigliava a non affaticarsi davvantaggio col cervello, a smettere il suo quotidiano lavoro, a riposarsi specialmente la notte. Ma egli ci dava pochissima retta; arroge la notizia del ritorno di Urbano V ad Avignone che fu per lui un colpo di fulmine; una critica acerbissima mossagli da un monaco francese, al quale volle rispondere con somma acrimonia, e non è stupirsi se più celeremente andasse consumandosi quel po' di vita che gli rimaneva. Il suo amico vescovo di Cabassole che aveva vestito la porpora, fu mandato in quei giorni legato a Perugia. Desiderando ardentemente di rivedere il caro poeta, lo invitò con affettuosissime lettere a recarsi nell' Umbria. Si provò a montare a cavallo, ma fatti pochi passi dovette cedere al peso degli anni ed alle affralite sue forze. Era insorta nel 1373 una guerra fierissima tra l'amicissimo suo Francesco da Carrara e la repubblica di Venezia. Il principe di Padova rimase vinto, e la repubblica gl' impose condizioni umiliantissime ch' egli non poteva accettare. Mandò suo figlio Francesco Novello a Venezia a chieder perdono e giurare fedeltà alla repubblica, e tanto pregò il Petrarca che fatto un ultimo sforzo lo accompagnò nella capitale della repubblica a perorare per lui. Ma sembra che la sua facondia non abbia potuto operare sull'animo del Senato e

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