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quinta quivi: So io che parla [v. 12]. Potrebbesi piú sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare in⚫tendere, ma puotesi passare con questa divisione, e 35 però non m'intrametto di piú dividerlo. E questo è 'l sonetto, che comincia qui.

[Sonetto XXV]

Oltre la spera, che piú larga gira,
passa 'l sospiro ch' esce del meo core:
intelligenza nova, che l'Amore

4 piangendo mette in lui, pur su lo tira.
Quand'elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sí, che per lo suo splendore
8 lo peregrino spirito la mira.

36. m'intrametto; cfr. la nota al cap. xvi, 35. E questo ecc. L'aspirazione alla sede de' beati e il suo connaturarsi nell'animo di Dante coll'amore risorto per Beatrice infondono per tutto questo sonetto una soave idealità che pervade cosí il concepimento come l'espressione, tanto da farne una dolcissima poesia.

38. la spera, che più larga gira, è il primo mobile, secondo il sistema di Tolomeo (cfr. Purg, xxxIII, 90 il ciel che più alto festina; Par., xXVII, 99 ciel velocissimo). Oltre questo cielo, secondo ci dice Dante stesso, Conv., 11, 4 « li cattolici pongono lo cielo Empireo, che tanto vuol dire, quanto cielo di fiamma ovvero luminoso; e pongono, esso essere immobile E questo quieto e pacifico cielo è lo luogo di quella somma deità che sé sola compiutamente vede ».

...

40. intelligenza nova; la nuova virtú intellettuale, compartita dall'Amore la quale trae il pensiero di Dante all'empireo.

43. riceve onore, gli altri beati le fanno onore.

44. e luce si ecc. Si ricordi qui che Dante rappresenta Beatrice nel cielo empireo come luce che sfolgora in mezzo allo splendore del paradiso; e la vede (Par., xxx1, 71)

che si facea corona

riflettendo da sé gli eterni rai.

per lo suo splendore, per la sua pura luce (Par., xxx, 40),

Luce intellettual piena d'amore.

amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.

40

45

50

Vedela tal, che quando 'l mi ridice,
io non lo 'ntendo, sí parla sottile
11 al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso recorda Beatrice,

14 sí ch'i' lo 'ntendo ben, donne mie care.

XLII

Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose, che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire 5 a ciò io studio quanto posso, sí com'ella sa veracemente. Sí che, se piacere sarà di colui, a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto

47. non lo 'ntendo; Dante non intendeva come il suo pensiero potesse rappresentargli la visione della sua donna beata, poiché trascendeva l'umana facoltà; ma pur sentiva che si trattava di Beatrice. XLII. · 1. una mirabile visione; è l'idea ancora indeterminata e vaga del poema sacro, la quale Dante ando di poi precisando ed elaborando con lunga meditazione e grande amore.

2. ne la quale vidi cose: nel quale concepimento ebbe gran parte l'idea di sollevarsi, parlando di Beatrice, in una regione più alta, che non avessero fatto gli altri poeti; e perciò il proposito di non dir più di lei fino a che non avesse determinato la materia e la forma del suo poema.

4. E di venire ecc. Accenna Dante agli studî coi quali si preparò a recare in atto il suo grande concetto di un poema che supe rasse tutto ciò che precedentemente era stato scritto per donna alcuna: e questi suoi studî, specialmente di filosofia, sono rappresentati, come opportunamente osserva il D'Anc., dalle canzoni del Convivio.

8. dire di lei quello che mai ecc. Il Witte crede che Dante si riferisca specialmente a ciò che disse di Beatrice, chiamandola (Inf., 11, 76)

donna di virtú, sola per cui

l'umana spezie eccede.ogni contento
da quel ciel, che ha minori i cerchi sui,

d'alcuna. E poi piaccia a colui, che è sire de la cortesia, che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria 10 de la sua donna, ciò è di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui, qui est per omnia saecula benedictus. AMEN.

e invocandola (Purg., xxxш, 115):

O luce, o gloria della gente umana

e anche (Par., iv, 118):

O amanza del primo amante, o diva.

Ma un accenno a questi epiteti particolari non si può ammettere in una prosa scritta quando la Commedia era appena concepita; si che migliore è l'interpretazione del D'Anc. che Dante voglia riferirsi all'aver fatto di Beatrice, donna terrena, un simbolo altissimo di perfezione e di beatitudine. Si potrebbe anche credere che la frase dire di lei ecc. significhi: scrivere per lei un poema quale non fu scritto per alcuna donna, un poema al quale avrebbero posto mano e cielo

e terra.

9. sire de la cortesia, dio, cosi chiamato in quanto è liberale donatore alle anime de' suoi beni (cfr. Conv., iv, 20); nello stesso senso il Petrarca (Canz., Italia mia, 10) lo disse signor cortese.

DANTE

La Vita nuova.

14

NOTE PER LA CRITICA DEL TESTO

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Ho già avvertito (Not. sulla V. N., § 1) che fondamento alla presente edizione fu il testo del cod. A, seguito scrupolosamente: non si per altro che dove era manifesto errore del copista non si ricorresse ad altri testi e specialmente alla lezione de' codd. BC. Per altro alcune particolarità del cod. A non furono riprodotte, e ne darò notizia in queste note, perché gli studiosi a' quali potesse importare abbiano maniera di ricostruirsi, per dir cosí, la sembianza del codice. E prima dirò che a' passi latini, che troviamo sparsi nella V. N., s'accompagna in A ne' margini una versione, quasi sempre letterale, che non può esser di Dante, sarà ma forse del copista, dimostratosi a piú indizî persona cólta di lettere. Raccoglierò qui coteste versioni, rimandando ai testi latini della V. N.: 1 18, Ecco idio più forte di me che mmi uiene a signoreggiare; 24, Ap. parue già la beatitudine uostra; 27, Guai a me misero imperò c' aspramente sarò impedito da quinci innançi; 111 9, Io singnore tuo; VII 36, O uoi tutti che passate per la uia attendete e uedete s' egli è dolore similliante al mio; XII 15, Figluolo mio egl'è tempo d'abandonare l'idoli nostri; 23, I' sono né piú né meno come 'l meçço del cerchio che ssimilgliantemente le parti si congiunghono insieme e tu non se' cosi; XIII 15, I nomi sono quelli che seguitano le cose; XXIV 29, Io sono boce che grido nel diserto, apparecchiate la uia di dio; xxv 56, 0 tu Eole; 57, O reina che pensi, la tua fatica è di piangere che cose di comandamenti mi si conuiene a piglare; 62, Tu Roma dei molto usare le cittadine armi; 67, O sciensia dimmi l'uomo; 70, Io ueggio le battalglie che ssi apparecchiano contra me; XXVIII 1, De come siede sola la cittade piena di popolo donna di genti facta quasi uedoua.

Ancora: il codice ha certe particolarità ortografiche comuni ad ogni scrittura del sec. XIV, inutili a riprodurre in una stampa che non abbia un intendimento speciale filologico: tanto più che coteste particolarità non sono molte né molto osservabili. Per es. il cod. A, mentre ne' più dei casi tiene distinta la preposizione dall'articolo determinato, qualche volta usa la prep. articolata (es. della, nelli o innelli ecc.), che io risolsi sempre ne' suoi due elementi. Spesso congiungendosi due parole, avviene un raddoppiamento nella consonante ¡niziale della seconda, come che-ssi, che-mmi, si-mmi, che-ssiano, a-llui ecc.; o un'assimilazione: illoro (in loro). Non di rado le forme dei verbi composti

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