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forta nessuno. Levinsi dunque gli animi al cielo, nella cui perpetua legge, ne' cui eterni splendori, nella cui vera bellezza si potrà senza alcuna oscurità conoscere la stabilità di colui che le une e le altre cose con ragione move, acciocchè, siccome in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo ingannati.

Fuga da Firenze e viaggi di Dante.

Uscito adunque Dante in cotale maniera di quel

la città, della quale egli non solamente era cittadino ma n'erano li suoi maggiori stati redificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme coll' altra famiglia male per la picciola età alla fuga disposta, di lei si curò poco, perciocchè di consanguinità la sapeva ad alcuno de' principi della parte avversa congiunta: di sè medesimo, or qua or là incerto, andava vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia difesa, e non senza fatica ottenutala; de' frutti di essa sè e li piccioli figliuoli di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero con industria disusata gli conveniva il sostentamento di sè medesimo procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, a lui più duri che morte a trapassare! Promettendogli la speranza quelli dover essere brievi, e prossima la ritornata, egli, oltre al suo stimare, parecchi anni tornato da Verona, (dove nel primo fuggire a messere Alberto della Sca

la n'era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto) quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Maorvello Malaspina in Lunigiana, quando con quelli della Faggiuola ne' monti vicino ad Urbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la loro possibilità, onorevolmente si stette. Quindi poi se ne andò a Bologna, dove poco stato, se ne andò a Padova, e quindi da capo se ne tornò a Verona. Ma poichè vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e più di dì in dì divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalle provincie di Gallia, come potè, se n'andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della teologia e della filosofia ritornando ancora in sè delle altre scienze ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se n'era partito. E in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso Arrigo, conte di Luzimborgo, con volontà e mandato di Clemente papa V, il quale allora sedeva, fu eletto in re de' Romani, e appresso coronato imperadore. Il quale sentendo Dante, della Magna partirsi per soggiogarsi Italia alla sua maestà in parte ribella, e già con potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dover essere vincitore, prese speranza colla sua forza e colla sua giustizia di potere in Firenze tornare, comechè a lui la sentisse contraria. Perchè ripassate le alpi con molti nimici de'Fiorentini, e di loro parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s'ingegnarono di trarre lo'm peradore dallo assedio di Brescia, acciocchè a Fio

renza il ponesse, siccome a principale membro de' suoi nimici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o picciola, ad avere libera ed espedita la possessione e 'l dominio di tutta Italia. E comechè a lui e agli altri a ciò attenenti venisse fatto il trarloci, non ebbe però la sua venuta il fine da loro avvisato: le resistenze furono grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate non erano; perchè, senza avere niuna notevole cosa operato, lo 'mperatore, partitosi quasi disperato, verso Roma dirizzò il suo cammino. E comechè in una parte e in altra più cose facesse, assai ne ordinasse e molte di fare ne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendeva, disperatosi, e massimamente Dante, senza andare di suo ritorno più avanti cercando, passate le alpi di Appennino se ne andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue fatiche dovea por fine, lo aspettava.

Era in quel tempo signore di Ravenna, famosissima e antica città di Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novello da Polenta, il quale ne❜liberali studi ammaestrato," sommamente i valorosi uomini onorava, e massime quelli che per iscienza gli altri avanzavano. Alle cui orecchie venuto, Dante fuori d'ogni speranza essere in Romagna, avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore, in tanta disperazione si dispose di riceverlo e di onorarlo. Nè aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo, considerato quale sia a' valorosi la vergogna del dimandare, con proferte gli si fe'

davanti, richiedendo di speciale grazia a Dante quello ch' egli sapeva che Dante doveva a lui domandare; cioè che seco gli piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri a uno medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere; e da altra parte il bisogno strignendolo, senza aspettare più inviti che 'l primo, se ne andò a Rarenna, dove onorevolmente dal signore di quella ricevuto fu, e con piacevoli conforti, risuscitata la caduta speranza, copiosamente le cose opportune donandogli, in quella seco per più anni il tenne, anzi insino all' ultimo della vita sua.

Non poterono gli amorosi desiri, nè le dolenti lagrime, nè la sollecitudine casalinga, nè la lusinghevole gloria de' pubblici officii, nè il miserabile esilio, nè la intollerabile povertà giammai colle loro forze rimuovere il nostro Dante dal principale intendimento, cioè da' sacri studi; perocchè, siccome si vedrà dove appresso partitamente delle opere da lui fatte si farà menzione, egli nel mezzo di qualunque fu più fiera delle passioni soprad-. dette si troverà componendo essersi esercitato. E se inimicato da tanti e sì fatti avversari, quanti e quali di sopra sono stati nominati, egli per forza d'ingegno e di perseveranza riuscì chiaro, qual noi ne veggiamo, che si può sperare ch'esso fusse divenuto, avendo avuto altrettanti aiutatori, o almeno niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo io non so; ma se lecito fusse a dire, io direi: ch' egli fusse in terra divenuto uno Iddio.

Morte ed onori funebri.

Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza del ritornare mai in Firenze (comechè tolto non fusse il disio) più anni sotto la protezione del grazioso signore, e quivi colle dimostrazioni sue fece più scolari in poesia e massime nella vulgare; la quale, secondo 'l mio giudicio, egli primo non altrimenti tra noi italici esaltò e recò in pregio che la sua Omero tra' Greci o Virgilio tra' Latini. Davanti da costui, comechè per poco spazio di anni innanzi si creda che trovata fusse, niuno fu che sentimento o ardire avesse ( dal nu mero delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori) di farla essere strumento di alcuna artificiosa materia; anzi solamente in leggerissime cose di amore con essa si esercita vano. Costui mostrò con effetto, con essa ogni alta materia potersi trattare e glorioso sopra ogni altro fece il vulgare

nostro.

Ma poichè la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli già nel mezzo o vicino al cinquantesimosesto suo anno infermato, e secondo la religione cristiana ogni ecclesiastico sagramento umilemente e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione di ogni cosa commessa da lui contro al volere suo siccome da uomo, riconciliatosi, del mese di settembre negli anni di Cristo, 1321, nel dì che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla chiesa, non senza grandissimo dolore del sopraddetto Guido e generalmente di tutt'i

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