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fermezza, oh bestiale appetito degli uomini! Che cosa non possono in noi le femmine, se elle vogliono, che eziandio non volendo possono gran cose! Esse hanno la vaghezza, la bellezza e 'l naturale appetito ed altre cose assai continovamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, Ercole per Iole e Paris per Elena facessino, perciocchè poetiche cose sono, e molti di poco sentimento le dirien favole, ma mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era nel mondo ancora più di una femmina, quando il nostro primo padre (lasciato il comandamento fattogli dalla propria bocca di Dio) si accostò alle proprie persuasioni di lei? certo no. E David, non ostante che molte ne avesse, solamente veduta Bersabè, per lei dimenticò Iddio e 'l suo regno, sè e la sua onestà, e adultero prima e poi omicida divenne; che si dee credere ch' egli avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone, al cui senno niuno, dal figliuolo d' Iddio in fuori, aggiunse mai, non abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere ad una femmina non s' inginocchiò ed adorò Balaam? E che fece Erode? Che altri molti, da niuna altra cosa tratti che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali, non iscusato, ma accusato con assai meno curva fronté solo può passare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumi più notabili avere rac

contato.

Delle diverse opere dall' Alighieri scritte.

Compose questo glorioso poeta più opere ne'suoi

giorni, delle quali ordinata memoria credo che sia convenevole fare acciocchè nè alcuno delle sue si intitolasse, nè a lui fussino per avventura intitolate le altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della sua morta Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in uno suo volumetto, il quale egli intitolò Vita Nuova, certe operette, siccome Sonetti e Canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui, maravigliosamente belle; di sopra di ciascuna partitamente e ordinatamente scrivendo le ragioni e cagioni che a quelle fare l'avevano mosso, e di dietro ponendo le divisioDi delle precedenti opere. E comechè egli di avere questo libretto fatto negli anni più maturi si vergognasse molto, nondimeno, considerata la sua età, è egli assai bello e piacevole, e massimamente a' vulgari.

Appresso a questa compilazione più anni, ragguardando egli dalla sommità del governo della repubblica sopra la quale stava, e veggendo in grandissima parte (siccome da così fatti luoghi si vede) quale fusse la vita degli uomini, e quali fussino gli errori del vulgo, e come fussino pochi i disvianti da quello e di quant' onore degni fussino, e quelli che a quello si accostassino di quanta confusione, dannando gli studi di questi cotali e molto più gli suoi commendando, gli venne nell'animo uno alto pensiero, per lo quale ad una

medesima ora, cioè in una medesima opera, propose, mostrando la sua sufficienza, di morderc con gravissime pene gli scellerati e viziosi, e con altissimi premi li virtuosi e valorosi onorare, ed a sè perpetua lode e gloria apparecchiare. E perciocchè (come già è mostrato) egli aveva ad ogni studio preposta la poesia, poetica opera egli stimò di comporre; e avendo molto davanti premeditato quello che fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno cominciò a mandare ad effetto ciò che davanti premeditato aveva; cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversità, la vita degli uomini: la quale, perciocchè conobbe essere di tre maniere, cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla virtù, o vertuosa, quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando, e finendo nel premiare la vertuosa, mirabilmente distinse in uno volume, il quale intitolò Commedia. Dei quali tre libri egli ciascuno distinse per canti e i canti per ritmi, siccome chiaramente si vede; e quella in rima vulgare compose con tanta arte, con sì mirabile ordine e con sì bello, che niuno fu ancora che giustamente potesse quella in alcuno atto riprendere. Quanto sottilmente egli in essa poetasse, per tutti coloro, alli quali è tanto d'ingegno prestato che 'ntendano, il possono vedere. Ma siccome noi veggiamo le grandi cose non potersi in brieve tempo comprendere, e per questo conoscere dobbiamo così alta, così grande, così escogitata impresa (come fu tutti gli atti degli uomini e i loro meriti poeticamente voler sotto versi vulgari e rimati racchiudere) non essere stato possibile in picciolo spazio aver a suo fine recata, e BOCCACCIO. Fita di Dante.

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massime da uomo, il quale da molti e varii casi della fortuna, pieni tutti di angoscia e di amaritudine venenati, sia stato agitato, come di sopra mostrato è che fu Dante, perciò dall'ora che di sopra è detto ch'egli a così alto lavorìo si diede, insino allo stremo della sua vita (comechè altre opere, come apparirà, non ostante questa componesse in questo mezzo) gli fu fatica continua. Nè fia di soperchio in parte toccare di alcuni accidenti intorno al principio ed alla fine di quella avvenuti.

Accidenti occorsi intorno alla Divina Commedia.

Dico che mentre ch' egli era più attento al glorioso lavoro, e già della prima parte di quello, la quale intitola Inferno, aveva composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile, ma come cristianissimo poetando (cosa sotto questo titolo mai avanti non fatta), soppravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga che chiamar si convenga, per la quale egli,e quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di sè medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna poter operare; per la quale forse vi può porre indugio ma non torre la possa dal debito fine, avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna, cercando fra le cose di Dante (in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sagri, nel tempo che tumultuosamente

la ingrata e disordinata plebe era più vaga di preda che di giusta vendetta), corso alla casa trovò li detti sette canti stati da Dante composti, li quali con ammirazione, non sapendo che si fussero, lesse; e piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli dal luogo dov' erano, li portò ad uno de' nostri cittadini, il cui nome fu Dino del signor Lambertuccio Frescobaldi, in quelli tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze; e mostroglieli. Li quali veggendo Dino, uomo di alto intelletto non meno che colui che portati gli aveva, si maravigliò sì per lo bello e pulito ed ornato stile del dire, sì per la profondità del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso. Per le quali cose agevolmente insieme col portatore di quelli, e sì ancora per lo luogo onde tratti li aveva, estimò quelli essere, come erano, opera stati di Dante. E dolendosi quella essere imperfetta rimasa, comechè essi non potessino seco presumere a qual fine fusse il termine suo, tra loro deliberarono di sentire dove Dante fusse, e quello che trovato avevano mandargli, acciocchè, se possibile fusse, a tanto principio desse lo immaginato fine. E sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso al marchese Maorvello, non a lui, ma al marchese scrissero il loro desiderio, e mandarono li sette canti; li quali poichè il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti e molto seco lodandoli, li mostrò a Dante domandandolo se esso sapeva cui opera stati fussero; li quali Dante riconosciuti, subitamente rispose, che sua. Allora il pregò il marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine si alto

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