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nato non lo chiama, perchè oramai disdegna di parlargli; e in ciò ricorda, senza però che vi sia possibilità di rapporti, l'Aiace del libro XI dell'Odissea, o meglio (e forse il ricordo non restò senza efficacia sulla creazione dantesca) la Didone del VI dell'Eneide, ascoltante muta le proteste dell'infido amatore e ricorrente da ultimo nelle braccia di Sicheo 1.

Del resto, l'obbligo della vendetta non richiedeva, specialmente in Firenze, un grado molto intimo di parentela o di benevolenza. Il bolognese Lana avvertiva aver i Fiorentini << tale uso, che tutto il parentado si reputa l'offesa, e così la si imputa da tutti li parenti dello offenditore; e però ciascun parente della parte offesa s'appronta di fare vendetta in lo offenditore o in li suoi parenti ». E dell'animo vendicativo dei Fiorentini l'imolese Benvenuto soggiungeva: Cum omnes homines naturaliter tendant ad vindictam, Florentini maxime ad hoc sunt ardentissimi et publice et privatim; ... unde audivi optimos Florentinos maxime damnantes genus Florentinorum a nimio appetitu vindictae 2. Il fiorentino ser

1 Odissea XI, 543 ss. (like the ghost of Ajax in the Odyssey: LongFELLOW); Eneide VI, 450 ss.

2 Anche nei versi (Purg. XXXIII, 35-6):

ma chi n'ha colpa, creda

Che vendetta di Dio non teme suppe,

gli antichi interpreti s'accordano a vedere un'allusione a una costumanza specialmente fiorentina circa le faide. PIETRO DI DANTE: « Sed qui hoc fecit, speret punitionem Dei, quae non timet illam abusionem Florentinorum, quae est, cum aliquis magnus occiditur, custoditur eius sepulcrum die noctuque, ne super ipsum infra novem dies offa sive suppa comedatur. Alii dicunt quod ultio de tali oecisione fieri nequiret ». Ma non tutti, e in ispecie gli altri toscani, se ne mostrano ugualmente sicuri. L'OTTIMO, p. es., la dice una falsa opinione che le genti avevano, le quali credeano che se lo micidiale potesse mangiare infra certi dì una suppa in su la sepoltura dello ucciso, che di quella morte non sarebbe mai vendetta> Il Buri afferma bensì anche lui accennarsi a una < vulgare opinione dei Fiorentini, ma soggiunge curiosamente: non credo di quelli che senteno, ma forsi di contadini, o vero che sia d'altra gente strana; unde l'autore lo cavò, non so, non de' essere che non sia da che l'ha posto ». E l'ANONIMO FIORENTINO riferisce quella costumanza, premettendovi: < so

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66 VENDETTA DI DIO NON TEME SUPPE "

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Brunetto dava poi addirittura le norme che dovessero seguire l'offensore e l'offeso. Nel Tesoretto (v. 2051) fa egli insegnare

levasi anticamente ». BENVENUTO accetta la chiosa vulgata, aggiungendovi di suo: et hoc fecerunt multi famosi Florentini, sicut dominus Cursius Donatus». Ma quel che Corso facesse noi non sappiamo; anzi, come già avvertì il DEL LUNGO (Una vendetta ecc., p. 41), « che tale superstizione allignasse in Firenze, non ne abbiamo in verità... alcun riscontro di fatto nelle croniche... e ricordanze». E soltanto narra il VILLANI (IX, 12) che, circa due anni dopo della uccisione di Corso (VIII, 96), i Donati uccisono messer Betto Brunelleschi, et poi appresso i detti Donati hebbono parenti et amici raunati a San Salvi, et disotterrarono messer Corso, et feciono grande lamento et esequie come se allhora fosse morto, mostrando che per la morte di messer Betto fosse fatta la vendetta, et che elli fosse stato consigliatore della sua morte. Il qual racconto vale certo efficacemente e a rassicurarci della bramosia feroce di vendetta che, ancor nel 1311, ardeva nel cuore dei Fiorentini, e «< a dimostrarci come anche intorno alle fosse de' morti vegliassero in Firenze gli odii e gli amori feroci dei consorti dell'onta (DEL LUNGO, p. 42); ma non può servire di diretto commento, salvo che non vi si voglia ammettere una scorrezione del testo o più probabilmente un equivoco o una citazione fatta vagamente a memoria, della chiosa di Benvenuto.

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Comunque, quell' usanza non ha nulla d'inverosimile. Già il LANA accennava che essa < era anticamente nelle parti di Grecia »; e il FALSO BOCCACCIO asseriva che l'arrecò Carlo Senza Terra di Francia, che quando egli sconfisse e prese Curradino con gli altri baroni de la Magna e fece loro tagliare la testa in Napoli, e poi dice che feciono fare le suppe e mangiaronle sopra quei corpi morti, cioè Carlo con gli altri suoi baroni, dicendo che mai non se ne farebbe vendetta ». Era, in fondo, la continuazione e la superstiziosa trasformazione della costumanza romana del sacrificium novemdiale, offerto ai mani del defunto il nono giorno dopo ch'era stato seppellito (si ricordi, p. es., la chiosa del BUTI: che se alcuno fusse ucciso, et infra li nove dì dal dì de l'uccisione l'omicida mangi suppa di vino in su la sepoltura.... ») insieme colla cena novemdialis. I Romani stessi, nel giorno proprio della sepoltura, bandivano presso la tomba del morto un banchetto, silicernium, al quale partecipava tutta la famiglia ( (cfr. BOUCHE-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines p. 471-2). I primi Cristiani avean cercato di ribattezzare codesta usanza pagana andando a banchettare sui sepolcri dei santi Martiri. In un luogo, veramente notevolissimo ma che non vedo notato da nessuno, delle Confessioni (VI, 2), sant' AGOSTINO narra di sua madre a Milano: « Itaque, cum ad memorias sanctorum, sicut in Africa solebat, pultes et panem et merum adtulisset, atque ab ostiario prohiberetur, ubi hoc Episcopum [sant'Ambrogio] vetuisse cognovit, tam pie atque obedienter amplexa est, ut ipse mirarer quam facile accusatrix potius consuetudinis suae, quam disceptatrix illius prohibitionis effecta sit.... Et quia illa quasi parentalia superstitioni gentilium essent simillima, abstinuit se libentissime ». Convertito poi anch'egli al cristianesimo, spese una parte dell'opera sua a sbarbicare dall'Africa quella superstizione; e dapprima scrisse ad Aurelio vescovo di Cartagine, consigliando (Epist. 22): Sed quoniam istae in

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da Prodezza al Cavalier gioioso:

Se tu hai fatto offesa

Altrui, che sia ripresa
In grave nimistanza,
Si abi per usanza
Di ben guardar da esso,
Ed abi sempre apresso
E armi e compagnia
A casa e per la via.
E se tu vai a torno,
Si va per alto giorno,
Mirando d'ongne parte;
Chè non ci ha miglior arte
Per far guardia sicura
Che buona guardatura.
L'occhio ti guidi e porti,
E lo cor ti conforti.....

E i' ho già veduto

Ben fare una vengianza

Che quasi rimembranza

No 'nd'era tra la gente...

coemeteriis ebrietates et luxuriosa convivia, non solum honores Martyrum a carnali et imperita plebe credi solent, sed etiam solatia mortuorum, mihi videtur facilius illic dissuaderi posse istam foeditatem ac turpitudinem, si et de Scripturis prohibeatur, et oblationes pro spiritibus dormientium, quas vere aliquid adiuvare credendum est, super ipsas memorias non sint sumtuosae, atque sumibus petentibus sine typho et cum alacritate praebeantur, neque vendantur....; di poi egli stesso ad Ippona (Epist. 29) si oppose alla rinnovazione di quegli stravizzi. Anche presso gli Ebrei dovette esserci una costumanza press' a poco simile. Vi si accenna nel libro di TOBIA (IV, 18): Panem tuum et vinum tuum super sepulturam iusti constitue, et noli ex eo manducare et bibere cum peccatoribus E a Firenze pare si usassero ancora ai tempi del Boccaccio cotali cene funerarie. In una delle sue intemerate contro ai frati, esclama (Decum. III, 7): tutto il lor disidèro hanno posto e pongono in.... mostrare che con limosine i peccati si purghino e colle messe, acciò che a loro, che per viltà non per divozione sono rifuggiti a farsi frati e per non durar fatica, porti questi il pane, colui mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l'anima de' lor passati».

Quanto alle stramberie inventate dagl'interpreti, dal DANIELLO in giù, cfr. la nota dello SCARTAZZINI, II, p. 775-6. Alle quali è ora da accodare quella del BERTHIER (nel Rosario, a. VII, p. 209-12), che vuol identificare il suppe dantesco col soupe della Chronique de Rheims e di altri antichi testi francesi, che sembra significhi la comunione simbolica

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Quando, viceversa, si sia ricevuta un'offesa, non bisogna starsene con le mani in mano (v. 2117):

S'ofesa t'è di fatto,
Dicoti a ongne patto
Che tu non sie musorno,
Ma di notte e di giorno,
Pensa de la vendetta.
E non aver tal fretta
Che tu n'hai pegior onta;
Chè il Maestro ne conta
Che fretta porta inganno,
E 'ndugio è par di danno,
E tu così digrada.
Ma pur, come che vada
La cosa lenta o ratta,

Sia la vendetta fatta.

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Per l'offesa ricevuta, Geri non era stato musorno; anzi, dal ritratto che ne ha sbozzato Dante, par proprio ch'egli della vendetta si fosse fatta quasi una religione. In questo poteva passare per un perfetto tipo di fiorentino 1. E, rissoso fatta ai cavalieri morenti da un compagno d' armi. Di recente poi il MENGHINI (nel Propugnatore, n. s., III, 1a, p. 243) ha rimessa in luce una lettera dello STIGLIANI al Cardinale Orsini, del 4 settembre 1643; nella quale l'acuto materano, riferita la tradizione della zuppa, così interpretava il verso dantesco: la vendetta di Dio non si dimentica, per beni usurpatisi a S. Pietro e mangiatisi in Chiesa, ed osservava che se la Commedia, nonostante questa bestemmia e moltissime altre più esecrabili, le quali contiene per tutto, non è stata ancora proibita, deve codesto privilegio alla sua oscurità ».

1 Notevoli documenti d'un tale appetito dei Fiorentini sono anche le novelle III, 7 e VIII, 7 del Decamerone. Nella prima di esse, un fiorentino, accusato a torto d'un omicidio e condannato, nell'atto di promettere al suo liberatore di perdonare chi di quella sua prigionia era stato innocente cagione, esce a dire: «Non sa quanto dolce cosa si sia la vendetta, nè con quanto ardor si desideri, se non chi riceve le offese; ma tuttavia, acciò che Iddio alla mia liberazione intenda, volentieri loro perdonerò et ora loro perdono. Nell'altra, uno scolare, nel vendicarsi d'una vedova che lo aveva beffato, le dice: «..... te, come antichissimo nimico, con ogni odio e con tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si possa assai propriamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento, in quanto la vendetta dee trapassare l'offesa, e questo non v'aggiungerà..... La realtà era anche più triste di quanto queste novelle farebbero supporre. Cfr. DEL LUNGO, Una vendetta ecc., p. 16 ss.

SCHERILLO, Biografia di Dante.

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e turbolento nel mondo, morto desiderando che i suoi lo vendicassero, egli ha portato nell'inferno tutte le inquietudini che lo tormentarono in vita; e in questo ergastolo, fra le torture più grandi e moleste che abbia ordinate la inesorabile vendetta divina (Inf. XXVIII, 130-32), ei sente più acuti gli stimoli del suo spirito, e la coscienza della ignavia dei suoi consorti gli inacerbisce le ferite. Novello Capaneo, in ciò che la sua collera non s'ammorza ei trova nuova e peggiore punizione. Il pensiero che l'offesa fatta a lui non è ancora lavata, gli riesce più intollerabile del suo terribile castigo: come a Farinata il sapere che i suoi nè sono ancora riusciti nè forse riusciranno mai a riconquistar Firenze. Ma se a Farinata è pur di conforto, oltre che il ricordo della propria magnanimità, il prevedere che quel superbo guelfo che gli sta dinanzi neanche lui saprà rimpatriare, qual conforto resta a Geri, così gretto di animo, e solo curante delle sue bizze personali? Uno ne avrebbe potuto trovare, e grandissimo, nel riconoscere, come Cacciaguida, nello straordinario pellegrino un proprio parente, e nel precorrere col pensiero il momento in cui, con parola più affilata di qualunque coltello, quegli avrebbe fatte le sue e le vendette dell'umanità, calcando i pravi e sollevando i buoni. Ma gli sarebbero bisognate altra mente ed altra anima. Così com'è, egli non può ispirare che una grande compassione.

III.

<< Pietà poco lodevole, anzi degna di stare in una di quelle bolgie », tuona il padre Lombardi. O come? Forse che il provare pietà per un povero matto rinchiuso in un manicomio suoni biasimo pel medico che ve l'ha fatto rinchiudere? O

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