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uscì risoluto in campo con un piccolo esercito di cinquemila uomini, e raggiunti gli imperiali a Faenza gli sconfigge in una sanguinosa battaglia, entra in Toscana, e battutili una seconda volta vicino di Firenze (542), si impadronisce di tutta l'Italia, tolte lo poche città guardate dai presidii imperiali. Napoli potè sola opporsi al corso vittorioso del re Goto che la strinse d'assedio, giovandosi di quell' indugio per ridurre intanto in sua balìa tutto il regno.

Giustiniano udito di queste ripetute sconfitte, inviò per la via del mare ajuti e vettovaglie onde sostenere gli assediati, ma Totila colse si bene l'opportunità, che tutta l'armata o fu distrutta sulla rada di Napoli o cadde nelle sue mani prigioniera. Gli assediati ciononostante tennero fermo contro le proposizioni degli assedianti e l'orrore della fame, ma stretti infine a capitolare, apersero le porte al vincitore (543). Un re barbaro avanzò di pietà i Greci inciviliti. La città stupì della clemenza di Totila; Conone e i soldati del presidio ebbero navi per tornarsene a Costantinopoli, gli altri viatico e bestie da soma per recarsi nella città di Roma.

Belisario caduto in disgrazia della corte dannajola di Costantinopoli fu pur rimandato in Italia (544 ), come quel solo atto a ristorare le perdite sofferte. Giuuto però a Ravenna senz' armi ed armati, fu costretto a vedersi sugli occhi il trionfante esercito di Totila scorrere l'Italia e cingere d'assedio la maJarrivata Roma, la quale difesa da Bessa, soldato valoroso ed avarissimo, ebbe a durare orribili mali dai difensori e dagli assedianti, incrudelendo la fame a tal segno, che non si sdegnavano a cibo ogni maniera di immondezze, ed un padre con cinque figliuoli si lanciò disperato nel Tevere. Gli ajuti promessi o tentati da Belisario, o non giunsero o caddero in mano di Totila; così si durò fino al 546, in cui parecchi soldati Isauri, apersero al re le porte della città, decimata dalla miseria e dai patimenti. Ne però con questo avevano fine le di lei sciagure. Partito Totila per la Campania, Belisario, ozioso in Porto, vi rientrò, fortificandosi alla meglio e difen

Teja

dendola qualche tempo con un glorioso successo (547). Uscitone poco di poi, per opporsi alle armi di Totila nella Calabria, mal sostenuto dai suoi, sollecitando invano ajuti da Costantinopoli, mandata prima a questo effetto la moglie Antonina, fu poco dopo richiamato egli stesso per capitanare la guerra contro i Persiani (548), avendo inutilmente e senza gloria messa per più anni alla prova la sua militare sapienza.

Totila libero di lui, ripigliò Roma (549), signoreggiò tutta Italia; spogliò crudelmente la Sicilia, sottomise Corsica e Sardegna, impunemente insultando fino le coste dell' Epiro.

e

Giustiniano fermo di tentare un ultimo sforzo per ricuperare l'Italia, ne affida prima l'impresa a Germano, imparentato per donna a Teodorico; al quale morto per via succede Narsete, quell' eunuco pocanzi mentovato. Costui messo insieme un esercito di Eruli, Rugi, Longobardi ed altri barbari, discese per la via di Venezia in Ravenna, una delle poche città, che tenessero ancora per gli impariali. Ristoratosi appena dalle fatiche del lungo viaggio, corse difilato in traccia di Totila, ben sapendo che un sercito composto di elementi così diversi non potrebbe lungo tempo tenersi unito. Totila a vicenda, congiunte insieme tutte le sue forze, pose il campo vicino ad una terra detta Tagina, e quivi attaccò la battaglia. Capitano e soldato intrepido, non ismenti quel giorno la fama del suo valore, ma soverchiato dai Greci e ferito, col favore della notte fuggì insieme a pochi compagni, i quali furono spettatori della sua morte, e gli diedero sepoltura (552). Il suo berretto gemmato e la sua spada furono presentate a Giustiniano, in quella che Narsete si impadroniva un altra volta di Roma, la quale presa e ripresa non serbava ormai più avanzo dello splendore antico. Di valoroso in valoroso passò il governo dei Goti, colla elezione di Teja, dopo la gloriosa morte di Totila. Senza por tempo in mezzo egli uscì di Pavia (553), e deviando dai capitani posti da Narsete a guardia delle vie, irruppe arditamente nella Campania, ac

campandosi vicino di Nocera in sulle rive del Sarno. Ne il prode Narsete avrebbe si di leggieri potuto snidarli, se un Goto non avesse tradito i suoi. Teja, vedutosi colto al passo estremo, come uomo generoso, fermò di vender cara la vita; epperò lasciati indietro i cavalli, assalì con un disperato impeto i nemici, combattendo da mane a sera, finchè non fu trafitto da un dardo, nell' atto che mutava lo scudo carico delle aste nemiche. Allora i Goti vennero finalmente a patti, qual si convenivano a' valorosi : potere cioè sloggiare d'Italia colle armi, potar via le ricchezze raccoltevi, giurando di non combattere mai più per l'avvenire contro i Greci.

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I Franchi che avrebbero potuto sostenere la fortuna dei Goti, non vennero che ad accrescere i mali della già misera Italia. Scutari e Bucellino fratelli, alla testa di un nugolo di Franchi ed Alemanni commisero in questo e nel seguente anno le più orribili crudeltà, uccidendo e rovinando quanto venisse loro alle mani; finoachè quello disfatto dalla pestilenza questi dalle armi di Narsete, sgomberarono, abbandonando tutto il paese ai Greci vincitori (554).

Così terminò il regno gotico, senza migliorare la Gli condizione dei vinti, i quali balzati di conquista in Esarchi conquista, di dominatore in dominatore non ebbero mai stato fermo ed indipendente. Narsete ottenne titolo di governatore o Esarca, si arrichì, come già Belisario, e tutti gli altri capitani delle spoglie dei popoli, a cui si aggiungevano tali e si gravi flagelli dal cielo, da fare ragionevolmente temere la prossima e totale dissoluzione dell' universo.

Venuto a morte Giustiniano (565), o che i Romani fossero veramente stanchi di Narsete, o che da Giustino II. il novello imperatore, sperassero più mite governo, mandarono ambasciatori a Costantinopoli per muoverne lagnanze. Le quali, e forse più il non avere diviso colla corte il maltolto, affrettarono il di lui richiamo, mandandosi a succedergli Longino. Una lettera oltraggiosa della imperatrice Sofia, superba donna, aggiunta al dolore della inopinata partenza, preparò l'invasione dei Lon

Alboino

gobardi, invitati da Narsete per vendicarsi, come-
chè il fatto, quantunque volgare, non sia certo
e i Longobardi non avessero d'uopo di grande im-
pulso per discendere alla conquista dell' Italia, cui
avevano già pur troppo nelle antecedenti guerre im-
parato a conoscere (567).

I LONGOBARDI—567-774.

I Longobardi, così chiamati dall' uso di portare assai lunga la barba, o, come altri vuole, dalla lunghezza delle aste, usciti dalla Scandinavia si stabilirono da prima nel Rugiland o terre dei Rugi, poscia in quelle degli Eruli, quando questi perirono o abbandonarono il paese per recarsi in Italia. In seguito Audoino, nono dei loro re, trapiantandoli sulle rive del Danubio nella Pannonia (548), li fece terribili a quanti barbari erano stabiliti in quelle contrade. I Gepidi furono i primi a far prova della potenza di questi nuovi ed inquieti vicini, in una gran rotta toccala da loro, nella quale Alboino uccise di sua mano uno dei figliuoli del re (551). Questo primo fatto fu seme di altre più accanite battaglie. Venuto al governo dei Gepidi Cunimondo, fratello dell'ucciso, ruppe immediatamente la guerra ad Alboino anch'esso di fresco succeduto al padre nel regno.

Una giornata campale decise del destino delle due nazioni. I Gepidi furono pienamente sconfitti, e il teschio di Cunimondo, giusta il barbarico costume della nazione, fu convertito in una tazza da usarsi nei più solenni banchetti, il che però non trattenne Alboino dallo impalmarsi con Rosmunda, figliuola di Cunimondo stesso, venutagli a mano dopo la dispersione dei suoi (566). Quanto al resto dalla nazione, priva da quel tempo di re, fu spenta o incorporata agli Avari ed agli stessi Longobardi.

Tale era la condizione e la potenza di questi barbari, quando fu loro, come si dice, proposta da Narsete la conquista dell' Italia (567).

Non era mestieri di forte sprone all' ambizioso Alboino e agli avidi Longobardi, che avevano già

gustate le dolcezze dell' Italia; laonde unitisi ad altri popoli barbarici, traendo seco donne, vecchi, fanciulli e bestiami si calarono senza incontrare resistenza di sorta dalle alpi Giulie (568). Impadronitosi del Friuli e postovi il nipote Gisolfo col titolo di duca, occupò Verona e Milano, non trovando resistenza che in Pavia, la quale teune fermo contro di lui per ben tre anni. Alboino strettala d'assedio, non oziò coi suoi per quel tempo: anzi scorrendo per tutta Italia, si spingeva fino nell' Umbria, fondando il ducato di Spoleto, e forse quello vastissimo di Benevento.

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Intanto i Pavesi non aiutati dall' Esarca Longino, a gran fatica reggentisi in Ravenna, ne dalle altre città marittime: stretti dalle armi e dalla fame, dovettero arrendersi al vincitore, il quale nell'ira di un si lungo indugio aveva giurato di esterminarli tutti. Senonchè essendogli per avventura entrando in città caduto sotto il cavallo, ne volendo, benchè gli desse di sprone, correr oltre, rammentando essere i vinti abitatori pur cristiani come lui (i Longobardi erano infetti dell' arianesimo), perdonò loro, fermando d'allora in poi la città di Pavia come principal sede del nuovo regno (572).

Questa fu l'ultima delle imprese di Alboino. Un giorno nell' ebbrezza d'un banchetto, mandò il cranio di Cunimondo pieno di vino alla moglic Rosmonda, con un feroce scherzo aggiungendo, poter ella cosi bere anche una volta insieme al padre, La donna oltraggiata, risoluta di farne comechessia vendetta, convenutasi con un Perideo, fortissimo uomo, lece trucidare il re mentre dormiva. Ma fallitale la speranza di porre Elmichi suo amante in trono, riparò col tesoro a Ravenna presso l'Esarca Longino, ove perì, come si narra, per avere attentato anche alla vita del secondo marito (573).

Caduto in questa guisa Alboino, i Longobardi raunatisi a consiglio eleggevano in re Clefi (573) nobilissimo e animoso tra tutti i Duchi, il quale continuò sulle orme dello antecessore ad impadronirsi delle città italiane, spogliando crudelmente, i più

Clefi

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