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Nel fascicolo XIV della collezione d'Opuscoli scientifici e letterarii, stampata in Firenze nel 1812 e seg., diede il Fiacchi siccome inedito il presente sonetto, ch' egli avea tratto da un codice appartenuto al padre Alessandri, abate della Badia fiorentina. Ma egli era già noto e già edito, perciocchè fino dal 1589 era stato col nome di Dante pubblicato da Faustino Tasso nella sua edizione delle rime di Cino in fronte al sonetto di questo poeta in risposta, il quale incomincia Dante, non odo in quale albergo suoni. Pare veramente che a Dante appartenga, tanto più che in varii codici, siccome nel laurenziano 47 del Plut. XC, e nel vaticano 3214, si vede col nome di lui.

1 Del signor, cioè, d'Amore.

2 L'amore di cui il Poeta qui parla, dall' andamento del sonetto, e dai concetti in questo espressi,

sembra essere l'amore della virtù.

3 delli nostri diri, de' nostri ragionamenti. Anco altrove disse i lor diri esser vani.

SONETTO XLII.

Due donne in cima della mente1 mia
Venute sono a ragionar d'amore:
L'una ha in sè cortesia e valore,
Prudenza ed onestate in compagnia.2
L'altra ha bellezza e vaga leggiadria,
E adorna gentilezza le fa onore.3
Ed io, mercè del dolce mio signore,
Stommene a piè della lor signoria.
Parlan bellezza e virtù all' intelletto,
E fan quistion, come un cuor puote stare
Infra duo donne con amor perfetto.
Risponde il fonte del gentil parlare: 5

Che amar si può bellezza per diletto, 6
E amar puossi virtù per alto oprare.7

Questo sonetto fu dal cavalier Lamberti pubblicato nel giornale letterario di Verona intitolato Il Poligrafo (num. XX, 16 maggio 1813), dando la notizia, che fu tratto da un codice nel quale stanno più rime inedite di Fazio, del Soldanieri, del Sacchetti e di altri antichi, e che gli fu inviato dal conte Giulio Perticari. In questo bel sonetto, ch' io reputo infallibilmente di Dante, e che come tale fu pur ristampato nelle

collezioni del Bettoni e del Caranenti, parla il Poeta delle due femmine, cioè, l'uņa Beatrice, l'altra la filosofia, delle quali fu tanto acceso. E questo una gran chiave per l'intelligenza delle rime liriche del nostro Poeta, e per comprovar sempre più, che due furono gli amori di Dante; il primo il sensuale, il secondo l'intellettuale.

1 mente per intelletto intende il .Poeta. Vedi il Convito, tratt. IV, cap. 15.

2 E questa è la donna celestiale, la virtù.

3 E questa è la donna terrena. 4 La bellezza e la virtù, cioè, le dette due donne.

5 il fonte del gentil parlare, vale a dire Amore (il quale nel v. 7 è da

lui chiamato il dolce suo signore), s'ccome nella Vita Nuova ed altrove disselo il fonte del gentil operare, perchè trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose.

6 amar si può bellezza per diletto, e quest' è l'amor sensuale.

7 E amar puossi virtù per alto oprare, e quest' è l'amore intellettuale.

SONETTO XLIII.

Nulla mi parrà mai più crudel cosa,
Che lei, per cui servir la vita smago:
Chè 'l suo desire in congelato lago,
Ed in fuoco d'amore il mio si posa.
Di così dispietata e disdegnosa

La gran bellezza di veder m' appago ;
E tanto son del mio tormento vago,
Ch' altro piacere agli occhi miei non osa.
Nè quella, ch'a veder lo Sol si gira,

E' non mutato amor mutata serba,3
Ebbe quant' io giammai fortuna acerba :
Onde, quando giammai questa superba

Non vinca; Amor, fin che la vita spira,

Alquanto per pietà con me sospira.

2

Sonetto bellissimo, e infallibilmente dantesco, che il Witte trasse dal più volte citato codice ambrosiano, e che pubblicò nel suo opuscoletto intorno le liriche di Dante Alighieri. La donna, di cui qui parla il Poeta, io ritengo esser la filosofia; ed ei talvolta chiamolla disdegnosa, fiera e crudele, perchè (com' egli stesso dice nel Convito, tratt. III, cap. 10 ed altrove) eragli duro e malagevole l'entrare addentro nelle sentenze di lei, nonostante ch' ei fosse assiduo suo seguace ed amante.

1 smago, qui figurat. consumo. Smagare, venir meno, infievolire l'ho notato più volte.

2 piacere anche qui per oggetto piacente. Non osa, non si addice, non si affà. Osare, lo stesso che ausare, nella pronunzia cambiato l'au in o, come in auro, oro; laudare, lodare ec., significa propriamente assuefarsi, esser assuefatto, esser solito. Così nel

la canz. I, stan. 4: Dar mi potete ciò ch' altri non osa. - Può anche intendersi: Ch' altro oggetto non osa piacere agli occhi miei.

3 Nè quella, ch' a veder lo Sol si gira, El non mutato amor mutata serba, bellissima similitudine. Il Poeta accenna qui Clizia, di cui Ovidio, Metam., IV, v. 270: Vertitur ad Solem, mutataque servat amorem.

SONETTO XLIV.

1

Lo re, che merta i suoi servi a ristoro
Con abbondanza, e vince ogni misura,
Mi fa lasciare la fiera rancura,2

E drizzar gli occhi al sommo concistoro.
E qui pensando al glorioso coro

De' cittadin della cittade pura
Laudando il creatore, io creatura

Di più laudarlo sempre m'innamoro.
Chè s'io contemplo il gran premio venturo,
A che Dio chiama la cristiana prole,

Per me niente altro che quello si vuole :
Ma di te, caro amico, sì mi duole,

3

Che non rispetti al secolo futuro,
E perdi per lo vano il ben sicuro.

Questo sonetto, che vedesi nel più volte citato codice ambrosiano, è indirizzato ad un tal Giovanni Quirino, del quale il Crescimbeni, sull'autorità del Muratori (che di quel codice diede una descrizione) fece parole come d'antico poeta, e del quale il Foscarini nel libro III della Letteratura veneziana disse essere stato amico il nostro Poeta. È noto che del cognome Quirini esiste una famiglia veneziana, a cui verso la metà del sec. XIII appartenne un vescovo nominato Giovanni; ma non sappiamo se questo od altro Giovanni fosse il preteso amico di Dante. Comunque sia, il presente sonetto è scritto nel codice immediatamente dopo l'altro Lode di Dio e della Madre pura, di cui farò qualche parola in appresso. E siccome l'uno, secondo la maniera degli antichi nostri poeti, scorgesi agevolmente per sonetto missivo e l' al

tro responsivo, non solo per la corrispondenza delle rime, ma per quella pure de' concetti; così opina il Witte (dal quale fu messo in luce, e col quale pienamente io consento) essere improbabile che l'uno e l'altro ad un solo poeta appartengano, e quindi rendersi credibile che il primo, ch'è sonetto di proposta, possa appartener al suddetto Giovanni, e che l'altro, che è di risposta, possa verisimilmente appartenere all'Alighieri; a cui anche mi muovo ad ascriverlo, perchè sente molto dello stile e de' modi del nostro filosofo e cristiano Poeta.

1 merta, vale rimerita, rimunera.

2 Mi fa lasciare la fiera rancura; il fiero rancore, da Dante lungamente serbato per l'ingiusto esilio, e per le persecuzioni de' suoi nemici.

3 Che non rispetti, che non riguardi, che non rivolgi lo sguardo della mente. Rispettare, per riguardare, dal lat. respectare, non è registrato nel Vocabolario.

RIME DI DUBBIA AUTENTICITÀ.

CANZONE XXI.

Ai fals ris per qua traitz avetz1
Oculos meos, et quid tibi feci,2
Che fatto m' hai così spietata fraude?
Jam audivissent verba mea Græci : 3
San autras domnas, e vos us saubetz,
Che ingannator non è degno di laude.
Tu sai ben come gaude 5.

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7

Miserum ejus cor, qui præstolatur. 6
Eu vai speran, e par de mi a non cura: "
Ai Dieus quanta malura,

8

Atque fortuna ruinosa datur9

A colui, che, aspettando, il tempo perde, Nè giammai tocca di fioretto'l verde.10 Conqueror, cor suave, de te primo,11

Che per un matto guardamento d'occhi
Vos non deuriatz aver perdutz la lei.12
Ma e' mi piace, che al dar degli stocchi 13
Semper insurgunt contra me de limo: 1
Don eu sui mortz, e per la fe qu'autrei,1
Fort m desplatz, ai paubres mei! 16
Ch'io son punito, ed aggio colpa nulla.
Nec dicit ipsa Malum est de isto;

17

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