» altro assai antico della biblioteca di Siena, è detto appar» tenere a Niccolò di Mino di Cicerchia da Siena, ed è in » quest'ultimo indicato perfino l'anno in cui fu scritto, cioè » nel 1364. E che il suddetto poema sia lavoro, non del Boc» caccio, ma sì d'un poeta da Siena, non si sarebbe posto in dubbio, quando si fosse gettato l'occhio su tante voci e de» sinenze, proprie del dialetto senese, che vi si leggono, e » delle quali non vi ha neppure un vestigio in tutte le opere "sì in verso che in prosa del Certaldese. Finalmente nella » Raccolta di rime e prose del buon secolo della lingua, pub» blicata dal can. Telesforo Bini, Lucca 1852, si legge una » Lauda a un frate novello, assegnata dal codice Venturi al "beato Jacopone, ed è la serventese del Cavalca che comincia » Poichè se' fatto frate, o caro amico, dataci nella raccolta » suddetta per inedita, ma che si legge stampata dietro le » trenta stoltizie del Cavalca, e poi riprodotta nella Raccolta " di rime antiche toscane, Palermo 1817. E anche un sonetto » che principia Fior di virtù si è gentil coraggio, che quivi è "attribuito a Dante, è di Folgore da San Gemignano, come » si può vedere nella raccolta dell' Allacci, e ne' Poeti del " primo secolo, Firenze 1816. Altri infiniti esempii avrei da > recarvi in mezzo per dimostrare come si voglia andare a »rilento nel credere di questo o di quell' autore un dato componimento, perchè col suo nome è riportato in qualche co" dice, e particolarmente se è un solo, come quello del dottor » Bonucci. Ma passerò alla seconda osservazione, ch'è la più importante. " " " fir » Nell' antipenultima terzina di quest' Ave Maria leggo: » Nobis soccorri, non ti vincan l'ire, "Questo solo luogo basterebbe ad atterrare l'opinione del » Bonucci e di coloro che tengono con essolui essere stata "dettata da Dante. Imperciocchè voi vedete qui, mio pregia» tissimo amico, la voce priva per privi, vale a dire la terza " persona sing. dell' indicativo pres. in luogo di quella del "congiuntivo: il qual brutto modo non è proprio che de' Lombardi, ed anco del dialetto napoletano; nè per quanto frughiate in tutte le scritture de' padri della nostra lingua, e » in particolar modo toscani, non vi riuscirà mai di trovarne " un solo esempio. E si vorrà poi affibbiarlo a Dante? Credat » Judæus Apella, non ego. E a chi mi dicesse d'aver egli » usato ancora altre voci lombarde nel suo Poema, nei Salmi » penitenziali e nel Credo (sebbene ho qui tanto in mano da » poter provare il contrario), risponderei che altro è l'usare qualche parola d'un dato dialetto, ed altro il peccare con"tro le regole della grammatica e della lingua; e di questo » non potrà mai esser Dante accusato da nessuno. Aggiungerò ancora, non esservi esempio in tutte le sue opere e in verso ed in prosa, ch' egli abbia adoperato ne' verbi di se"conda coniugazione la desinenza in i nella terza persona sing. del congiuntivo, come si usa particolarmente da'cinque» centisti, e come si vede in quel togli per toglia nella ter" zina sopra citata, ed in quel vogli per voglia, ossia volga, " nella terza. E notate, che vollere o vogliere per volgere non » è della lingua fiorentina, ma del dialetto senese. E nella » tredicesima terzina quel sacristia vi par egli farina del » sacco di Dante, o non piuttosto di quello del frate divoto, » dal quale voi supponete scritta quest' Ave Maria? e C1 " scommetterei che avete dato nel segno: chè leggendosi nella " ventesima terzina: » E che conceda ad esto pover gregge >> Della sua verità lume e splendore, con l'esto pover gregge è facile che il divoto frate abbia » indicata la comunità del suo monastero, invocando l'aiuto » della Vergine. Lascio poi la camera del Spirito santo, il porsi e il fidar sè nelle sue braccia, la lode umana che re"gna al mondo, Cristo che in su la croce ci dette il lume » della sua lucerna, la Vergine lustra porta della Chiesa, lo n scusar di morte eternale, il por fine all' infirma legge, il " portar la palma giuliva del mondo, il liberare dal mortal pondo, ed altre stemperate e dilavate frasi e dizioni, ed aggiunti soverchiamente ripetuti, che si discostano le mille » miglia dall'alta fantasia e dall' ingegno creatore di Dante. » Concludendo, per le cose esposte, e per quelle che voi "stesso avete con retto criterio osservate, io torno a dirvi » che quest' Ave Maria non l' ho tenuta, nè potrò mai tenerla per parto legittimo del nostro sovrano Poeta. " " 1 Avverti, che le prime parole J'ogni ternario, poste in corsivo, compongono ordinatamente l' Ave Maria. 2 Le parole nunc et in hora mortis nostra, che mancano nell' acro stico, non furono (com'è noto) definitivamente approvate e introdotte nella Salutazione angelica, che da Pio V, onde per l'avanti il dirle o l'intralasciarle restava in arbitrio de' fedeli. DI ALCUNI FRAMMENTI CHE SI VEGGONO A STAMPA, E DI VARII ALTRI COMPONIMENTI LIRICI, CHE NE' CODICI S' INCONTRANO FALSAMENTE ATTRIBUITI A DANTE ALIGHIERI. Il Redi (annotazioni al Bacco in Toscana, Firenze 1691, pag. 111) riporta il seguente brano di un sonetto di 16 versi, o vogliam dire sonetto colla coda, che in un antico suo MS. stava col nome del divino Poeta : Iacopo, io fui nelle nevicate alpi, Con quei gentili dond'è nata quella, Ch' io mi ricordi di tua vita fella ?.... Il Witte pure, allorquando nell' Antologia pubblicò la nota canzone Poscia ch' io ho perduta ec., riportò a modo di citazione e d'appoggio, i frammenti seguenti, ch' egli avea tratto da un codice, di cui non diede al pubblico verun ragguaglio. E se 'l mio dire in la tua mente pegni, Tu ' troverai in tutto chiaro e vero. Leggi questo saltero: Da poi che venne Carlo con affanno, Sempre ha cresciuto, e crescerà 'l tuo danno. Nuova figura, speculando in vetro, Appare a me vestita negra e bianca, Come persona in cui regna sospiro; Si che la vita ranca Divenne sì, ch' io caddi per lo miro. Si, ch' io piango per te, o bella donna, Ora ti veggio nuda, magra e scalza, E nessun ti rincalza, Ma ciascheduno segue il tuo dannaggio, Similemente come a sofferire L'aquila ardisce, mirando la spera, Ahi cara donna, pensa alli tuoi danni, Onde che la sentenza è già prescritta Or ti sfoga, ruina, empia tempesta, In questi affanni, anzi dispetti e rabbia, Rispetto al primo frammento datone dal Redi, dirò che non abbiamo un solo esempio a comprovare che Dante, il quale nel Volgare Eloquio avea dettato le regole per ogni poetico componimento, e n'avea prescritto la forma, dettasse sonetti al di là della regolar misura di quattordici versi. E rispetto ai frammenti tutti presi insieme, dirò che non sentono punto della maniera del divino Poeta, al quale io ritengo essere stati falsamente attribuiti; tanto più che non mi è stato possibile incontrarne traccia ne' codici. che non solo in alcuni codici, ma pure in qualche stampa vedesi col nome dell' Alighieri, dee reputarsi di Cino non tanto per lo stile, quanto per esservi, nel v. 2, apertamente nominata Selvaggia. La canzone « Nel tempo che s'infiora e copre d'erba,» la quale, a giudicio dell'Arrivabene (Amori ec., pag. CCLXVIII) è di Dante, col nome di cui trovasi nel testo del Vitale e nel codice palatino 199, sta impressa nell' edizione giuntina fra le poesie d'autori incerti: ed io non saprei risolvermi ad ascriverla al nostro Poeta, quantunque la riconosca non priva d'una certa facilità e leggiadria. Nello stesso codice palatino, che ora ho citato, leggesi pure una ballata, che incomincia : Donna ed Amore han fatto compagnia; » ma io non ho saputo ravvisarvi lo stile ed il fare di Dante Alighieri. Ed infatti essa è attribuita da altri codici ad Jacopo Mostacci pisano. In quel codice ambrosiano, donde il Muratori ed il Witte trassero i varii sonetti, di cui già tenemmo discorso, si trovano col nome di Dante anco i tre seguenti: « Lode di Dio, e della Madre pura.... » Ma falsamente sono ad esso attribuiti. La chiusa del primo che dice: rende affatto improbabile che a Dante appartenga; perciocchè poteva egli mai il divino Poeta dirsi privo d'ogni lume |