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re altrui; come il sono oggidì a quella di accozzare caratteri di piombo i così detti compositori delle nostre tipografie. Onde se tanti svarioni s'incontrano ne' manoscritti pure delle Cronache, delle Novelle, delle Leggende compilate a bella posta per l'intelligenza d'uo-. mini idioti, come non dovea cangiar forma nelle mani di coloro che non avevano spesso salutate altre scuole che quelle dell' alfabeto, nè sapevano di Gramatica, nè di Latino, un libro destinato dal suo Autore a contenere i tesori della Filosofia, e dettato con elocuzione modellata sulle regole della Gramatica latina, e con linguaggio nobilissimo vaporato dell'alto stile de' latini scrittori? Che poi i primi editori così lo mandassero alle stampe come lo trovarono in qualche codice de' meno cattivi, nè qui ancora è da far meraviglia. Ma grande bensì debb' essere la nostra ammirazione sul chiarissimo Biscioni, chè, riproducendo il Convito nel 1723 in Firenze (5), non ne abbia data una lezione gran fatto migliore dell'altre accontentandosi di dirne che vi rimanevano alcuni luoghi alquanto al suo parere oscuretti (6). E l'ammirazione convien crescere all' infinito sopra tutti quegli eruditi che, come le pecorelle, gli uni facendo quello che gli altri facevano, stettero contenti a quanto il Biscioni aveva pubblicato, come se fosse il vero testo dell'Autore. Nel che è da dire

(5) Prose di Dante Alighieri e di messer Giovanni Boccacci. Per Giovanni Gaetano Tartini e Sauti Franchi.

(6) Pref. pag. xxxix.

che mai non si dessero pensiero di mettere in consulta col buon giudizio quello che leggevano, e di provare se lor veniva fatto d'intenderlo. Nè poi Dante era uomo (a voler considerare ogni cosa) che ad ogni passo sospinto potesse cadere in errori d'ogni fatta, e spesso ridicolissimi. Con quegli eruditi vanno a schiera gli Accademici della Crusca, che della stam. pa del Biscioni si servirono per l'ultima edizione del Vocabolario, in luogo di quella del Sessa, di cui si erano prevaluti gli antecedenti compilatori. Quel testo quindi prese posto di lezione volgata, e fu più volte ristampato nel secolo scorso: qual fede esso meriti il vedranno i lettori nelle note che si trovano ad ogni pagina della nostra edizione.

Ben è il vero che monsig. Dionisi, ammiratore di Dante caldissimo oltre ogni termine, accortosi che alcune lezioni del Convito non reggevano col buon discorso, erasi provato di sanarle ne'suoi Aneddoti. Ma quegli Aneddoti furono trascurati, perchè il Dionisi avea cert' aria di stravaganza nelle sue cose e nelle sue opinioni, che allontanava da lui gli animi poco pazienti de' letterati. Questi però furono meglio assennati sulla fede che si meritano i testi degli antichi scrittori, da che l'insigne Perticari ne rivelò molte piaghe nell' aureo suo Trattato degli scrittori del Trecento. Ed appunto dal Convito ei prese molti esempii di scorrezioni, siccome da quell' opera che il Salviati stesso diceva la più antica e la principale di tutte le illustri prose italiane ; e mostrò come poteano rimediarsi quando non si

fossero poste in biasimevole dimenticanza le sane ed acute discipline dell'arte critica.

E certamente quest' arte, ch'è la sola fiaccola per rimettere nella nativa bontà le opere de'Classici, quando chiaramente essa vedesi smarrita per la supina ignoranza de'copisti e degli editori; quest'arte di cui i Poliziani, i Vittorii, i Beroaldi, gli Heine, gli Ernesti, e molti altri chiarissimi Italiani ed Oltremontani fecero così bell'uso per liberare dalla scoria de' bassi tempi gli scritti immortali della Grecia e del Lazio; quest'arte, che nella materia delle lettere non è poi altro che la pratica applicazione dei canoni della Logica, è invocata anche da quelle opere che l'ingegno italiano produsse nel risorgimento dell'amana ragione prima che la stampa fosse trovata.

Perciò noi demmo intenzione, or son tre anni (7), di voler pubblicare un'edizione del Convito ridotto alla miglior lezione che fosse possibile. Ne da quel tempo abbiamo giammai perduto di vista il nostro Autore, procurandoci i riscontri di quanti codici venivano a nostra notizia, e studiando di renderci sempre più familiare la sua maniera di pensare, e di esprimere i proprii pensieri, onde camminar più sicuri nella scoperta degli errori, e nella correzione di essi. Chè ne parve sconoscenza il lasciare nel misero stato in che si giaceva quest' altissima e sapientissima prosa, in mentre

(7) Saggio dei molti e gravi errori trascorsi in tutte le edizioni del Convito di Dante. Milano, dalla Società Tipografica dei Classici Italiani, 1823.

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che da taluni si va disotterrando dalla polvere delle biblioteche, o con eruditi lavori illustrando tali scritture, cui sarebbe pietà non togliere dall' obblio in cui dormono da secoli. La qual cosa essi fanno col pretesto di fornire esempii a coloro che, sulle tracce di qualche moderno eccellentissimo scrittore, studiano di ripulire l'italiana prosa dal liscio straniero, e di darle carattere nazionale col ritrarre la favella verso gl'intemerati suoi principii. Ma se i nostri maggiori com'ebbero sempre in somma venerazione i versi di Dante, così avessero tenuto l'occhio eziandio alle sue prose un po'più di quello che sembrano aver fatto, essi ne avrebbero ricavato due notabili vantaggi. Il primo, che Dante avrebbe loro insegnato col fatto potersi dare anche in Italiano uno stile che si colora della gravità de' sapienti, col quale si debbono trattare gli alti subietti, lasciando alle Novelle, ed a quelle scritture che sono dell'indole delle Novelle, la lingua di qualunque volgo, per quanto essa abbondi di frizzi, ed abbia una certa sua efficacia. Il secondo, che si dee imitare negli scrittori latini il dire regolato dalla Gramatica, l'altezza dei sentimenti, ed ogni bellezza dell'eloquenza; ma che degenera in vizio l'invilupparsi, per solo fine di conseguir l'armonia, in que' lunghi avvolgimenti de' loro periodi, poichè si cade nell'oscurità, non potendosi nel nostro idioma, come nel loro, ravvisare così a prima giunta le corrispondenze della sintassi, quando i pensieri si dilungano troppo dall'ordine naturale. Del qual vizio benchè non vada del tutto esente

lo stile del Convito, esso non ne forma però il carattere generale. Perocchè ordinariamente il dire vi è conciso e vibrato, con forte ma semplice elocuzione; quale Tullio afferma essere il discorso de' filosofi, cioè non iroso, nè malevolo, nè atroce, nè sorprendente, nè astuto ma casto, verecondo, quasi siccome vergine incorrotto (8); se non che questo di Dante ha un non so che di quella maschiezza delle vergini spartane. E quindi stabilito il principio della convenevolezza degli stili, il Decamerone del Boccaccio, di cui non potrebbe immaginarsi la più compiuta prosa, ove si abbiano a raccontare facezie di gentili brigate, malízie, raggiri ed avventure di amanti, non sarebbe stato, con danno della vera eloquenza, tenuto in più d'un secolo come il canone universale dello scrivere italiano.

Alcuno però potrebbe argomentarsi che male impiegata sia stata l'opera che noi abbiamo posta intorno al Convito, dacchè essendo giunta ne' nostri tempi la Filosofia a cotanto splendore, quella di cui Dante fa uso ha quasi perduta ogni forza. Al che si risponde, che colla pubblicazione di questo libro noi non intendiamo di fornire nuovi lumi alle scienze; ch' ella sarebbe ridicola presunzione. Bensì, lasciato in disparte il bene che può venirne agli studii dell'eloquenza, come già si è accannato, noi crediamo che non sia al tutto inutile per Ja storia dell'umano intelletto il conoscere cone nel primo albore della resuscitata sapien

(8) Orator, ad Brutum, cap. 19.

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