XXIII. CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA (9). Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di rïandare i sempiterni calli ? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo aibore, Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera : Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s'affretta. Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva E dove il tanto affaticar fu vòlto: Ov' ei precipitando, il tutto obblia. È la vita mortale. Nasce l'uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso Il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene, L'uno e l' altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell' umano stato : Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perchè dare al sole, Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perchè da noi si dura? Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, Il patir nostro, il sospirar, che sia; E perir della terra, e venir meno Il perchè delle cose, e vedi il frutto Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l'ardore, e che procacci Il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand' io ti miro Star cosi muta in sul deserto piano, Seguirmi viaggiando a mano a mano; A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo E dell' innumerabile famiglia; Per tornar sempre là donde son mosse; Indovinar non so. Ma tu per certo, Che degli eterni giri, Che dell' esser mio frale, Avrà fors' altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, Non sol perchè d' affanno Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. E gran parte dell' anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggio sovra l'erbe, all'ombra, La mente; ed uno spron quasi mi punge E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Non so già dir; ma fortunata sei. 11 Ed io godo,ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. A bell' agio, ozïoso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale (10)? Forse s'avess' io l' ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, O forse erra dal vero, Mirando all' altrui sorte, il mio pensiero : Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, |