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studiò, e i travagli della rivoluzione, non consentirono al Leopardi di conoscere il mondo orientale com'è stato possibile di conoscerlo poi, che trent'anni di pace e lo sforzo onnipotente dell'Occidente e della civiltà hanno così mirabilmente lacerato il mistico velo che lo nascondeva. Dunque egli cominciò il suo grande studio dal mondo greco; e si scontrò felicemente nei più grandi ingegni che, a memoria d' uomini, si sieno applicati alla considerazione dell' universo. È cosa incredibile (e bisogna esserne stato molti anni testimone e quasi parte per intenderla appieno) la dimestichezza ch' egli aveva presa con quella lingua e con quegli scrittori sovrumani. Basta che nei momenti in cui degnava di non nascondere i prodigi dell'ingegno suo, egli confessava di aver più limpido e vivo nella sua mente il concetto greco che il latino o eziandio l'italiano. Da questa dimestichezza egli attinse una sorte di divinazione critica sopra tutti gli autori greci e della migliore e delle più basse età, riscontrata infallibilmente per vera o nei testi più perfetti o negli scolii e nei comenti dei più grandi espositori. Dal mondo greco passò a studiare il mondo latino; e dai dodici ai ventisei anni versò un così fatto tesoro di sapienza filologica in un sì sterminato numero di carte, che, senza altre prove, s'avrebbe quasi paura di narrarlo solo. Mirabile di profonda e vasta erudizione è il suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Mirabilissima la copia senza fine delle note, delle interpretazioni, delle chiose, dei comenti d'ogni genere sopra un gran numero d' autori antichi, fra i quali Platone, Dionigi di Alicarnasso, Frontone, Demetrio Falereo, Teone Sofi

sta ed altri assai. Più che mirabilissimi i Frammenti ch' egli raccolse di cinquantacinque Padri della Chiesa. Questi ed altri molti non meno importanti manoscritti filologici egli fidò nel 30, in Firenze, al chiarissimo filologo tedesco Luigi de Sinner, ora professore in Parigi, il quale ha già lasciato pregustarne un piccolo, ma coscienzioso ed accuratissimo, sunto (1): e gli egregi editori parigini del Tesoro di Enrico Stefano, usarono volonterosamente di quelle squisite, profonde e peregrine illustrazioni. Gli altri manoscritti di minore importanza sono conservati nella biblioteca paterna (2).

A quattordici anni fu preconizzato per un gran portento di sapere dal grande e credibile divinatore degl' ingegni patrii, Pietro Giordani, dal Cancellieri, dal celebre filologo svedese Akerblad; e poscia, di mano in mano, dal Niebuhr, dal Watz, dal Thilo, dal Bothe, dal Creuzer, dal Boissonade e da altri innumerabili (3). E chi volesse arrecare tutte le testimonianze che rendettero del suo sterminato sapere i più celebri filologhi tedeschi, inglesi e francesi, farebbe opera incredibilmente voluminosa.

Studiato i greci e i latini e domandata la misteriosa causa del dolore a tutto l'Occidente antico, corse senza troppo indugiarsi nel medio (dove il dolore non era più mistero), a domandarla all'odierno. Dante e il suo figliuolo Shakspeare risposero finalmente alla sua domanda, e gli dimostrarono l'universo sotto tutte le forme onde interpretava se stesso. Ed allora il Leopardi applicò all' universo il primo elemento del suo proprio ingegno, la sua fantasia; e si rivelò gran poeta.

Egli ritrasse le forme di quel mistero, prima dal mondo intellettuale estrinseco, poi dal mondo intellettuale intrinseco, e poi dal mondo materiale; e cantò onnipotentemente prima la caduta d'Italia e dell' antica civiltà, poi quella delle illusioni pubbliche e delle individuali, e poi finalmente il fato, la necessità e la morte. Alla prima specie appartengono più particolarmente i primi sei canti di questa edizione, alla seconda i successivi venti, alla terza gli altri; e tutti appartengono al luttuoso genere di tutte.

Il Mezzodi ricercato, nella profondità de' suoi sonni, dall' ineffabile dolcezza del nuovo lamento, lodò a cielo l'armonia che glieli accompagnava, e si sdegnò dell' alto dolore che glieli rompeva. Ma il Settentrione svegliato e destro a seguitare il secolo in tutte le sue vie, sentì più la grandezza dell' uno che la squisitezza dell' altro; ed un gran poeta tedesco pronunziò che quella gran poesia italiana ch'era nata sulle labbra di Dante, era morta alla fine sopra quelle del Leopardi.

Poscia che il Leopardi ebbe applicata la sua fantasia all'universo, e ritrattone tutte le forme del gran mistero del dolore, si spinse finalmente ad applicarvi il secondo elemento del suo ingegno, l'intelletto, ed a penetrare la sostanza di quelle forme: e si rivelò gran filosofo.

Ma il trovare quel che è, era ben altro che il dipingere quel che pare! La causa di quel mistero oltrepassa i confini fatali dell' intelletto umano. Più l'ıntelletto del Leopardi si travagliava d'indovinarla, più quella sembrava allontanarsegli ed alla fine dileguare. Allora quel gran pensiero che si era creduto onnipo

tente, prima s'adirò ferocemente col limite, ch'egli chiamò fato; poi si diffidò d'oltrepassarlo; poi, scambiato l'effetto colla causa, sentenziò che il dolore solo era il vero. E come aveva letto il dolore in tutti, e cantato il dolore da per tutto; spiegò il tutto col dolore.

Applicando il suo prodigioso intelletto all' universo, egli seguì l'ordine stesso che aveva seguíto quando v' applicò la fantasia; e, nelle sue Operette morali e nella sua Comparazione di Bruto minore e di Teofrasto, egli spiegò col dolore prima il mondo intellettuale estrinseco, poi il mondo intellettuale intrinseco, e poi il mondo materiale.

Stanco alla fine da un così affannoso e sterminato viaggio, fatto già quasi insensibile alle loro punture, s' adagiò sulle spine stesse del suo dolore; e risolute le tre scienze, onde aveva tentato l'universo, come in una vasta pozione sonnolenta, vi bevette a larghi tratti l'obblio di tutto l'ente e di se stesso. Ultima mente, smaltita la fiera bevanda, si ridestò; e della potente assimilazione di quella si valse a sorridere, ora sdegnosamente, ora mestamente, ora amaramente, del tutto. I Pensieri e i Paralipomeni (4) sono la manifestazione di questo triplice e spaventevole sorriso (5).

Tale fu l'ingegno del Leopardi, e tale la sua storia, considerato nella sua sostanza o, se eziandio si voglia, nella sua forma intrinseca. La forma estrinseca, nella quale esso si manifestò agli altri uomini, fu la più bella che fosse mai assunta dalla più bella lingua parlata. Egli scriveva greco, latino e italiano

antico da mentire un antico: e come nel 17 i filologhi tedeschi avevano tolte per antiche e vere due Odi greche (l' una ad Amore e l'altra alla Luna) e un Inno a Nettuno, medesimamente greco, del quale fu finta darsi la sola versione e le note; così nel 26 il Cesari tolse per antico e vero testo di lingua il Volgarizzamento del Martirio de' santi padri. Ma la forma vera e spontanea in cui quel prodigioso ingegno si manifestò, e nella quale noi dobbiamo veramente studiarlo, fu la lingua italiana odierna. In questa egli sciolse l'antico problema di dire tutto puramente e potentemente; e mostrò che il grande scrittore dee e può essere giusto sovrano e non oppresso suddito della lingua. Mai nessun linguaggio umano non ubbidì più spontaneamente a nessun uomo di quel che la nostra lingua ubbidisse a questo inimitabile scrittore. Forte ed avventato nei primi sdegni concitati in lui da quel dolore ch'egli sentiva palpitare non meno nella sua propria vita che nell' universale, fiero e terribile nella disperazione che gliene seguì, grave ed ineffabilmente semplicissimo nel sopore della stanca rassegnazione ch' ultimamente lo invase, il suo stile rappresentò a un tempo la varietà, l'unità e la perfezione dell'universo, disse tutto in tutti i modi in cui poteva essere detto, e fu grande e vivo esempio che la parola umana è, se può arrischiarsi il vocabolo, la sintesi del mondo, e si arresta solo nel confine che separa il mondo dall'infinito.

Oltre a così potenti cagioni, l'incanto che il suo stile operava o in versi o in prosa, consisteva nella perfezione della proprietà e dell' ordinamento delle

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