XXIV. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA. Passata è la tempesta; Che ripete il suo verso, Ecco il sereno E chiaro nella valle il fiume appare. Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l' umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a côr dell'acqua E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Si rallegra ogni core. Si dolce, si gradita Quand' è, com' or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende? O torna all' opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d' affanno ; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse Chi la vita abborría; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudar le genti e palpitar, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena Pene tu spargi a larga mano; il duolo D'alcun dolor; beata Se te d'ogni dolor morte risana. XXV. IL SABATO DEL VILLAGGIO. La donzelletta vien dalla campagna, Col suo fascio dell' erba; e reca in mano Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Su la scala a filar la vecchierella, Solea danzar la sera intra di quei Ch' ebbe compagni dell'età più bella. Già tutta l'aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù da' colli e da' tetti, Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno Della festa che viene ; E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, E seco pensa al dì del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face E tutto l'altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna, Di fornir l' opra anzi il chiarir dell' alba. Diman tristezza e noia Recheran l' ore, ed al travaglio usato Cotesta età fiorita È come un giorno d' allegrezza pieno, Che precorre alla festa di tua vita. Altro dirti non vo'; ma la tua festa Ch' anco tardi a venir non ti sia grave. XXVI. IL PENSIERO DOMINANTE. Dolcissimo, possente, Dominator di mia profonda mente; Terribile, ma caro Dono del ciel; consorte Ai lugubri miei giorni, Pensier che innanzi a me si spesso torni. Di tua natura arcana Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non senti? Pur sempre Che in dir gli effetti suoi Le umane lingue il sentir proprio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch' ei ragiona. Come solinga è fatta La mente mia d'allora Che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto d'intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei Tutti si dileguâr. Siccome torre In solitario campo, Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei. Che divenute son, fuor di te solo, Tutte l'opre terrene, Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia Gli ozi, i commerci usati, |