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O si ridesta; e sapïente in opre,

Non in pensiero invan, siccome suole,
Divien l'umana prole.

Quando novellamente

Nasce nel cor profondo

Un amoroso affetto,

Languido e stanco insiem con esso in petto

Un desiderio di morir si sente :

Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.

Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a se la terra

Forse il mortale inabitabil fatta

Vede omai senza quella

Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura :

Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quïete,

Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.

Poi, quando tutto avvolge

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura,

Quante volte implorata

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dall' affannoso amante!

Quante la sera, e quante

Abbandonando all'alba il corpo stanco,

Sè beato chiamò s'indi giammai

Non rilevasse il fianco,

Nè tornasse a veder l'amara luce!

E spesso al suon della funebre squilla,

Al canto che conduce

LEOPARDI, Opere. — 1.

12

La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti
Dall'imo petto invidiò colui

Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
Fin la negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro

D'ogni virtù che da saper deriva,
Fin la donzella timidetta e schiva,
Che già di morte al nome
Senti rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende
Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell' indotta mente

La gentilezza del morir comprende.

Tanto alla morte inclina

D'amor la disciplina. Anco sovente,
A tal venuto il gran travaglio interno
Che sostener nol può forza mortale,
O cede il corpo frale

Ai terribili moti, e in questa forma
Pel fraterno poter Morte prevale;
O cosi sprona Amor là nel profondo,
Che da se stessi il villanello ignaro,
La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.
Ride ai lor casi il mondo,

A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.

Ai fervidi, ai felici,

Agli animosi ingegni

L'uno o l'altro di voi conceda il fato, Dolci signori, amici

All' umana famiglia,

Al cui poter nessun poter somiglia
Nell'immenso universo, e non l'avanza,
Se non quella del fato, altra possanza.
E tu, cui già dal cominciar degli anni
Sempre onorata invoco,

Bella Morte, pietosa

Tu sola al mondo dei terreni affanni,
Se celebrata mai

Fosti da me, s'al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato
Ricompensar tentai,

Non tardar più, t'inchina
A disusati preghi,

Chiudi alla luce omai

Questi occhi tristi, o dell' età reina.
Me certo troverai, qual si sia l'ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
Erta la fronte, armato,

E renitente al fato,

La man che flagellando si colora

Nel mio sangue innocente

Non ricolmar di lode,

Non benedir, com'usa

Per antica viltà l'umana gente;

Ogni vana speranza onde consola

Sè coi fanciulli il mondo,

Ogni conforto stolto

Gittar da me; null' altro in alcun tempo

Sperar, se non te sola;

Solo aspettar sereno

Quel di ch' io pieghi addormentato il volto

Nel tuo virgineo seno.

XXVIII.

A SE STESSO.

Or poserai per sempre,

Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,

Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai

Palpitasti. Non val cosa nessuna

I moti tuoi, nè di sospiri è degna

La terra. Amaro e noia

La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T'acqueta omai. Dispera

L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto

Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.

XXIX.

ASPASIA.

Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
Per abitati lochi a me lampeggia
In altri volti; o per deserti campi,
Al dì sereno, alle tacenti stelle,
Da soave armonia quasi ridesta,
Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina
Quella superba vision risorge.

Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed erinni! E mai non sento
Mover profumo di fiorita piaggia,

Nè di fiori olezzar vie cittadine,

Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno Che ne vezzosi appartamenti accolta,

Tutti odorati de' novelli fiori

Di primavera, del color vestita

Della bruna viola, a me si offerse
L'angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D'arcana voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice, fervidi sonanti

Baci scoccavi nelle curve labbra
De' tuoi bambini, il niveo collo intanto
Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
Con la man leggiadrissima stringevi

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