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parole. Egli ritrasse l'artifizio dal cinquecento, la semplicità dal trecento, e l'essere proprio e particolare del suo stile, prima dai greci, sommo esempio di perfetto, e poi dal suo secolo e da se stesso, onde l'uomo dee ritrarre innanzi tutto. E non ostanti i suoi sterminati studi, soleva dire che quando lo scrittore toglie la penna, dee dimenticare il più possibile che vi è libri e sapere al mondo, e dee manifestare il puro e spontaneo concetto della sua mente.

Estimava assai più difficile l'eccellente prosa che gli eccellenti versi, perchè diceva, che gli uni somigliano una donna riccamente abbigliata, l'altra una donna ignuda. E profondamente consapevole di poter tutto scrivendo, sembrava quasi trastullarsi colle più difficili difficoltà della prosa italiana. Per questo e per la carità che, in mezzo a un giusto disdegno, egli ebbe pur sempre alla cara patria, inclinatosi a mostrare negli Spogli (onde poi il solertissimo Manuzzi fece sì prezioso tesoro nel suo gran vocabolario), nella Crestomazia italiana e nell' Interpretazione del Petrarca, come s' abbia a studiare la lingua, lo stile e il sentimento dei grandi scrittori; dopo essersi esercitato a diletto nei latini, imprese a volgarizzare i greci da senno. Egli mostrò nel Manuale di Epitteto, nei Discorsi morali d'Isocrate, nella Favola di Prodico e in un Frammento dell' Impresa, di Senofonte, che così come a nessun greco era ancora seguito di rivivere nella lingua italiana, così a tutti sarebbe possibile, solo che a far rivivere i grandi ingegni attendessero solo i grandi ingegni. Se non era la congenita malattia, l'intempestiva morte e, forse, la mistica diver

LEOPARDI. Opere. -1.

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sità onde questi due divini ingegni contemplarono l'universo, non è dubbio ch' egli avrebbe attinto Platone. E Platone, fatto rivivere in Italia da un Leopardi, avrebbe segnata una grande e nuova èra delle lettere italiane.

Considerato, per tal modo, questo portentoso ingegno, non solo, quanto è stato possibile, nella sua propria essenza, ma ancora nelle varie forme onde si è venuto di mano in mano palesando, è tempo ormai di considerar l'uomo tutto insieme nelle sue attenenze, o accidentali o naturali, sia cogli altri uomini sia con se medesimo; e, in somma, ne'suoi successi e ne'suoi costumi.

Nato sulla cima di un monte (dove l'antico Piceno si piacque di porre le sue città), d'una famiglia gentile, costumata e religiosa, la tenerezza paterna e fraterna, il cielo, le stelle, la luna nascente dall'acque e il sole cadente dietro le lontane vette dell' Apennino, furono i suoi primi sentimenti e le sue prime gioie. Egli si preparò alla vita come a un giorno festivo; e le sue prime parole furono una benedizione degli uomini e della natura che parevano così carezzevolmente accompagnarlo. Ma poi che la provetta età e la smisurata altezza del suo ingegno gli ebber renduta più necessaria la grandezza dei concittadini che la bontà dei consanguinei, ed il male inemendabile che poscia l'estinse, gli ebbe penetrato talmente l'ossa e le midolle che le nevi della montagna non gli furono più sopportabili, nell' acerbezza de' suoi dolori, egli si chiamò tradito da quegli uomini e da quella natura stessa che aveva già benedetta, dispregiò gli

DI GIACOMO LEOPARDI.

uni e maledisse l'altra; e, benchè insino alle lacrime dolentissimo de' suoi cari congiunti, il più costante desiderio della sua vita fu d'andarne a vivere al

rove.

Spinto da così fieri stimoli, nel novembre del 22 venne a Roma, dove contemplò avidamente nelle eterne cose quella più che umana antichità ch'egli aveva tanto contemplata negli eterni volumi. Poscia s'involse non meno avidamente fra i codici, massime della Barberiniana, v'imprese un catalogo dei manoscritti greci, ed altri gravi e stupendi lavori; e se la natura e la fortuna non gli avessero così iniquamente mancato, l'immortale Mai, ch' egli tanto e tanto meritamente ammirò, non sarebbe stato più solo. Visitato e carezzato a ventiquattro anni dai più gravi olil tramontani che dimoravano allora in quella città, sommo Niebuhr faceva pubblica fede al mondo della presente e futura grandezza del giovane recanatese; ed in nome della dottissima Germania, che egli così nobilmente rappresentava, gli offerì indarno in Prussia, quel che non gli avrebbe offerto indarno e mai non gli offerì l' infelicissima Italia, una cattedra di filosofia greca. Poscia, vagando tuttavia solitario, interrogò lungamente quei silenzi e quelle ruine, e lungamente, in sul tramonto del dì, pianse, al lontano pianto delle campane, la passata e morta grandezza. E nel maggio del 23 si ritrasse mesto e taciturno alla solitudine natia.

Quivi, mentre l'inesorabile natura avanzava, senza mai posare, nel suo mortifero lavoro, egli pianse, oltre a due anni, i desiderii e le speranze perdute;

e nel luglio del 25 gli parve trarsi dagli artigli della morte quando viaggiò, per Bologna, a Milano, dove il tipografo Stella l'invocava come prezioso ed inesausto tesoro di erudizione. Quindi gl'inizi e la fama anticipata d'un gran freddo futuro lo risospinsero a Bologna, ch'era stanza allora d'ospitalità, d'onesta letizia e di sapere. In Bologna, com'è variata Italia nella sua divina bellezza, s'innebriò di cordialità, non altrimenti che in Roma s'era innebbriato di grandezza; v'attese con diletto alla correzione delle sue poesie, che si stampavano quivi stesso, e delle sue prose, che si stampavano in Milano: e (salva una breve corsa a Ravenna, ove si compiacque di contemplare gli ultimi aneliti dell'antichità) vi dimorò insino al novembre del 26, che si rimise in Recanati.

Ma quell'incomprensibile, e quasi più che umano, dolore, che fu principio e fine di tutto l'essere del Leopardi, non lo lasciava mai riposare fra le dolcezze familiari, che sono pur sempre o il maggior bene o il minor male che gli uomini s'abbiano sulla terra. Dall'abisso medesimo del suo dolore egli aspirava, per l'insanabile instinto della specie umana, a quella felicità onde aveva letto, cantato e discorso il vano e il nulla. E sempre dietro al suo fuggitivo fantasına, ripartiva novamente di colà dove pur dianzi, disperato di raggiungerlo, s' era tornato. Nell'aprile del 27 si ricondusse a Bologna, donde, dopo due mesi, si recò a Firenze.

Ivi gli si scoperse una nuova scena: non la romana; non la lombarda: ma una più bella ed incantevole; e pure sempre italiana. L'olezzo de' fiori, l'ar

monia della lingua, la grazia inenarrabile delle donne, l'innocenza del reggimento, le curve svelte e, per così dire, aeree dell'architettura, un non so che di carezzevole e di casalingo che gli parve arcanamente scusare le pareti domestiche, un non so che d'attico e di leggiadro ch'egli aveva creduto insino allora un'idea ed ora la trovava una cosa sensibile ed esistente, gli rappresentarono un sogno leggerissimo ond' egli sorvolò più mesi il suo dolore ed osò novamente credere alla felicità. E recatosi nel novembre in Pisa, la pace, la quiete, il dilettoso silenzio, l'allegra solitudine e i soli tepidi e quasi orientali dell'inverno e della primavera sopravvegnente, gl'infusero un nuovo raggio di vita; e la speranza rinasceva nel suo cuore impietrito come l'erba e i fiori fra le lastre di quelle vie. Nel giugno seguente ritornò in Firenze, e sospirato assai più angosciosamente di Vittorio, che il mondo non fosse tutto Toscana, si ridusse, fra le malinconie del novembre, a Recanati.

Quivi, nell' orribile inverno trascorso fra il 29 e il 30, gli s'agghiacciarono l'ultima volta i sospiri sulle labbra e le lacrime sugli occhi. Si cantò da se stesso il canto della morte nelle Ricordanze, e poi risorto, nella primavera, si ricantò da se stesso il Risorgimento. E stretti l'ultima volta al suo cuore i suoi cari genitori, i suoi fratelli, Carlo (il suo, più che fratello, amico) e la sua celeste sorella Paolina, se ne svelse dolorosamente, per non doverli mai più rivedere sulla

terra.

Riviaggiò, fra l'aprile e il maggio, per Bologna a Firenze, con animo di fermarsi quivi indefinitamente.

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