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bano perseguitare coll' invidia; la quale è un'altra calamità solita di farsi incontro all' anime eccelse; ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e la noncuranza. Oltre che la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essere inimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come avvenne ad uno chiamato Camoens, o al più di quivi ad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai celebrata e levata al cielo, non dirò da tutti, ma, se non altro, dal piccolo numero degli uomini di buon giudizio. E forse le ceneri della persona nella quale tu sarai dimorata riposeranno in sepoltura magnifica; e le sue fattezze, imitate in diverse guise, andranno per le mani degli uomini; e saranno descritti da molti, e da altri mandati a memoria con grande studio, gli accidenti della sua vita; e in ultimo, tutto il mondo civile sarà pieno del nome suo. Eccetto se dalla malignità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun proporzionato segno del tuo valore: di che non sono mancati per verità molti esempi, noti a me sola ed al Fato.

Anima. Madre mia, non ostante l'essere ancora priva delle altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità. E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non altrimenti posso appetire questo non so se io mi dica bene o male, se non solamente come felicità, o come utile ad acquistarla. Ora, secondo le tue parole, l'eccellenza della quale tu m' hai dotata, ben potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento della gloria; ma non però mena alla beatitudine, anzi tira violentemente all' infelicità. Nè pure alla stessa gloria è credibile che mi conduca innanzi alla morte: sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mi potrà

pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ultimo, può facilmente accadere, come tu dici, che questa sì ritrosa gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi venga ottenuta in maniera alcuna, eziandio dopo la morte. Di modo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, in luogo di amarmi singolarmente, come affermavi a principio, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarò nel mondo; poichè non hai dubitato di farmi così calamitoso dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti. La quale sarà l' uno dei principali ostacoli che mi vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitudine.

Natura. Figliuola mia; tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all' infelicità, senza mia colpa. Ma nell' universale miseria della condizione umana, e nell' infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio, ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io deliberai di prestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidi che erano in mio potere.

Anima. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzionavi, è per avventura alcuno fornito di minore vitalità e sentimento che gli uomini?

Natura. Cominciando da quelli che, tengono della pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno, inferiori all' uomo; il quale ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il più perfetto.

Anima. Dunque alluogami, se tu m' ami, nel più imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle fune

ste doti che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato spirito umano che tu producesti in alcun tempo.

Natura. Di cotesta ultima cosa io ti posso compiacere; e sono per farlo; poichè tu rifiuti l'immortalità, verso la quale io t' aveva indirizzata.

Anima. E in cambio dell' immortalità, pregoti d iaccelerarmi la morte il più che si possa.

Natura. Di cotesto conferirò col Destino.

DIALOGO

DELLA TERRA E DELLA LUNA,

Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere, per essere una persona, secondo che ho inteso molte volte da' poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell' età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono nè più nè meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicchè non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perchè le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co' loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi, quando non abbia ad essere con tua molestia.

Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io son sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; chè quantunque amica del silenzio, come

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credo che tu sappi, io t' ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.

Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?

Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.

Terra. Nè pur io sento nulla, fuorchè lo strepito del vento che va da' miei poli all' equatore, e dall' equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch'è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l'ottava corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l'odo.

Luna. Anch' io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l'odo: e non so di essere una corda.

Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante; se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.

Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.

Terra. Di che colore sono cotesti uomini?

Luna. Che uomini?

Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d'essere abitata?

Luna. Si: e per questo?

Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.

Luna. Nè bestie nè uomini; che io non so che razze

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