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D'uomini ardea, non di fanciulle, amore.
Madri d'imbelle prole

V'incresca esser nomate. I danni e il pianto
Della virtude a tollerar s' avvezzi

La stirpe vostra, e quel che pregia e cole
La vergognosa età, condanni e sprezzi;
Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto
Agli avi suoi deggia la terra, impari.
Qual de'vetusti eroi

Tra le memorie e il grido

Crescean di Sparta i figli al greco nome;
Finchè la sposa giovanetta il fido

Brando cingeva al caro lato, e poi
Spandea le negre chiome

Sul corpo esangue e nudo

Quando e' reddía nel conservato scudo.

Virginia, a te la molle

Gota molcea con le celesti dita
Beltade onnipossente, e degli alteri
Disdegni tuoi si sconsolava il folle
Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri
Nella stagion ch' ai dolci sogni invita,
Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe
Il bianchissimo petto,

E all'Erebo scendesti

Volonterosa. A me disfiori e sciogli

Vecchiezza i membri, o padre; a me s'appresti,

Dicea, la tomba, anzi che l' empio letto

Del tiranno m'accoglia.

E se pur vita e lena

Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena.

O generosa, ancora

Che più bello a' tuoi di splendesse il sole
Ch' oggi non fa, pur consolata e paga

È quella tomba cui di pianto onora L'alma terra nativa. Ecco alla vaga Tua spoglia intorno la romulea prole Di nova ira sfavilla: ecco di polve Lorda il tiranno i crini;

E libertade avvampa

Gli obbliviosi petti; e nella doma
Terra il marte latino arduo s' accampa
Dal buio polo ai torridi confini.
Così l'eterna Roma

In duri ozi sepolta

Femmineo fato avviva un'altra volta.

A UN VINCITORE NEL PALLONE.

Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,

E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s' alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi, e il core
Movi ad alto desio. Te l' echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella.
Ai fatti illustri il popolar favore;

Te rigoglioso dell' età novella
Oggi la patria cara

Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona

Non colorò la destra

Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l' ardua palestra,
Nè la palma beata e la corona

D'emula brama il punse. E nell' Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse

Tal che le greche insegne e il greco acciaro

Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

Nelle pallide torme; onde sonaro

Di sconsolato grido

L'alto sen dell' Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa

Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote

Da poi che Febo instiga, altro che giuoco
Son l'
opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse

Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori ésca non porse,

Negli ozi oscuri e nudi

Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch' alle ruine
Delle italiche moli

Insultino gli armenti, e che l' aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivïon dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese

Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

Che del serto fulgea, di ch' ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Chè nullo di tal madre oggi s' onora:

Ma

per

te stesso al polo ergi la mente. Nostra vita a che val? solo a spregiarla: Beata allor che ne' perigli avvolta, Se stessa obblia, nè delle putri e lente Ore il danno misura e il flutto ascolta; Beata allor che il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede.

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