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Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo;
Ne farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso ne da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quïete;
Ond' io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quïete antica
Co' silenzi del loco si confonda.

Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu si caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è vòlto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s' apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio

Balza nel petto; e già s' accinge all' opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non si tosto,
Amor, di te m' accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso ;

O qualor nella placida quïete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla

Che all' opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze

L'arguto canto; a palpitar si move

Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano Ogni moto soave al petto mio.

O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende

Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron ch' a teso orecchio
Il fragor delle rote e de' cavalli

Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Sulla tacita via; poscia improvviso
Col suon dell' armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degh aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti:
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro

Che lieti colli e spaziosi campi

M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench' innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,

Quand' ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch' io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell' etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m' avanza.

XVII.

CONSALVO.

Presso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino, or già non più, chè a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
Cosi giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonato:
Ch' amico in terra a lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,

Quella che sola e sempre eragli a mente,
Per divina beltà famosa Elvira;

Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto, un detto d'alcun dolce asperso,
Ben mille volte ripetuto e mille

Nel costante pensier, sostegno e cibo
Esser solea dell' infelice amante:
Benchè nulla d' amor parola udita
Avess' ella da lui. Sempre in quell' alma
Era del gran desio stato più forte
Un sovrano timor. Così l' avea

Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
Alla sua lingua. Poichè certi i segni

Sentendo di quel di che l' uom discioglie,
Lei, già mossa a partir, presa per mano,
E quella man bianchissima stringendo,
Disse tu parti, e l'ora omai ti sforza:
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rendo
Qual maggior grazia mai delle tue cure
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende.
Impallidía la bella, e il petto anelo
Udendo le si fea: chè sempre stringe
All' uomo il cor dogliosamente, ancora
Ch' estranio sia, chi si diparte, e dice
Addio per sempre. E contraddir voleva,
Dissimulando l' appressar del fato,
Al moribondo. Ma il suo dir prevenne
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
Come sai, ripregata a me discende,
Non temuta, la morte; e lieto apparmi
Questo feral mio di. Pesami, è vero,
Che te perdo per sempre. Oimè per sempre
Parto da te. Mi si divide il core

In questo dir. Più non vedrò quegli occhi,
Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? un bacio solo
In tutto il viver mio? Grazia ch' ei chiegga
Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi
Potrò del dono, io semispento, a cui
Straniera man le labbra oggi fra poco
Eternamente chiuderà. Ciò detto
Con un sospiro, all'adorata destra
Le fredde labbra supplicando affisse.
Stette sospesa e pensierosa in atto

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