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Per la spietata e perfida noverca,

pure senti ognora per lei una verace carità filiale, nè cessò un istante di bramarne riformati i disordini, e di vederla ritornata all'antica virtù, siccome nel Convito sospirando confessa: Oh! misera patria mia, quanta pietà mi stringe per te qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reg. gimento civile abbia rispetto! Mentre nel Purgatorio l'amico Forese il domanda quand'egli tornerebbe fra i morti, risponde, che se la patria non tornasse all'an tica virtù, null'altro ei più vorrebbe che morire:

Non so quant' io mi viva,

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Ma già non fia il tornar mio tanto tosto,
Ch'io non sia col voler prima alla riva;
Perocchè il luogo, u' fui a viver posto
Di giorno in giorno più di ben si spolpa,
Ed a trista ruina par disposto.

Purg. XXIV, 76.

«E da questa ruina, dice il Perticari, non voleva campare: voleva incontrarla e cadervi, per non vedersi vivo quando la patria fosse morta. Questa immagine si fa veramente pietosa e tenerissima sopratutto quando noi guardiamo ch'egli scrisse queste cose nel bando. Ed in che stato! Nè danno nè onta aveva mai fatto a Firenze: aveva sudato per lei nelle armi, più nella toga: già il primo oratore, e l'ottimo de' Magistrati, ed ora con questa mercede, che a uscio a uscio mendicava la vita e scendeva e saliva per pane le scale altrui ; e tutto

per ira della patria: ed egli voleva per la patria morire! » —

Cotanto amando la sua Firenze, nella quale desiderava lo stanco animo riposare e la corona poetica riceverc, non è meraviglia s'ei rimettesse alquanto della sua naturale sostenutezza, e, senza però esser vilc giammai, scendesse anche talvolta ai prieghi. In ultimo i governatori della Repub blica non gli aprirono al ritorno altra via se non questa:che egli stesse per alcuno spazio in prigione; e dopo quella, in alcuna solennità pubblica fosse misericordiosamente alla chiesa principale offerto, e per conseguente libero (66). Ma Dante, il quale più che ad altro badò sempre a difendere e mantenere un'energica considerazione di sè stesso, non si piegò già ad un tale richiesto atto di bassezza, ma a colui, che di queste cose gli scrisse pregandolo al ritorno, virilmente rispose: Questo è adunque il glorioso modo, per cui Dante si richiama alla patria dopo l'affanno di un esilio quasi trilustre? Questo è il merito dell' innocenza mia che tutti sanno? E il largo sudore e le fatiche durate negli studii mi fruttano questo? Lungi da un uomo alla filosofia consacrato questa temeraria bassezza propria d'un cuor di fango: e che io a guisa di prigione sostenga il vedernii offerto, come lo sosterrebbe qualche misero sa putello o qualunque sa vivere senza fama. Lungi da me banditore della rettitudine, ch' io mi faccia

(66) Boccaccio, vita di Dante, pag. 42.

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tributario a quelli che m' offendono, come se elli avessero meritato bene di me. Non è questa la via per ritornare alla patria, o padre mio. Ma se altra per voi o per altri si troverà che non tolga onore a Dante nè fama ecco l'accetto, nè i miei passi saranno lenti. Se poi a Firenze non s'entra per una via di onore, io non entrerovvi giaminai. E che? forse il sole e le stelle non si veggono da ogni terra? E non potrò meditare sotto ogni plaga del cielo la dolce verità, s'io prima non mi faccio uom senza gloria, anzi d'ignominia, al mio popolo ed alla patria (67)?

Gli ultimi due protettori, ai quali l'Alighieri ricorse, Pagano d'Aquileja e Guido Novello, furono guelfi. E senza dubbio l'amichevole opera di questi due personaggi, massime del secondo, fecero sperare al poeta anche negli ultimi anni della sua vita, che venisse finalmente il tempo di rientrare senza infamia in Firenze.

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Mentre Dante si trovava in Ravenna gli fu indirizzata dal Bolognese Giovanni Del Virgilio un' Egloga latina. E perchè mai, gli diceva, perchè le altissime cose che tu canti, o almo poeta, dovrai cantarle sempre in lingua volgare? Solo il volgo potrà dunque goder del tuo canto, nè i dotti leggeranno di te nulla che sia dettato in più

(67) Dall'Epistola di Dante, che trovasi nel Cod. Laur. Pluteo xxix, num. viii, pag. 132, In licteris vestris et reverentia debita et affectione receptis etc., e che fu pubblicata dal Dionisi, Anedd. v,pag. 176, ed in parte tradotta dal Perticari.

nobile lingua? Rammentati, o sacro inge gno, la morte di Arrigo di Lucemburgo; rammentati la vittoria di Cane Scaligero sul Padovano, e come Uguccione della Faggiuola disfogliò il fiordaliso; rammentati le armate di Napoli, e i monti combattuti della Liguria. Vi ha egli forse al canto argomenti più acconci di questi? Ma innanzi ogni altra cosa non indugiare, o maestro, di venirne a Bologna per prendervi la poe

tica corona d'alloro. » —

Ben dove Dante sorridere di uno zelo così inopportuno, quantunque così affettuoso. In una seconda Egloga soggiungeva Giovanni, che grandissimo sarebbe stato il piacere dei Bolognesi del rivedere nella loro città Dante Alighieri, e che essi certamente non avrebbero posto mente a ciò che di alcuni loro concittadini dicevasi nell'Inferno. - «Che se verrai, esclamava il Del Virgilio, potrò farti conoscere i versi del nostro Mussato; ma Guido tuo, il Polentano, non patirà, che tu avessi a lasciare Ravenna e la bella pineta, che cingela in sul lido Adriatico. » —

A questi amichevoli voti ed inviti replicò il nostro Dante con altre due Egloghe latine, ove finse convenire a consiglio con due suoi amici, l'uno Ser Dino Perini fiorentino, l'altro Ser Fiducio de' Milotti Certaldese (68). — « Glorioso invero e di molto pia-`

(68) Al primo di essi diè il nome di Melibeo, all' altro di Alfesibeo, chiamando Jola il suo protettore Guido V Novello Polentano, Mopso Giovanni Del Virgilio e Titiro se medesimo. V. le Ecloghe.

cere sarebbemi, rispondeva egli a Giovanni, ornare il capo della corona d'alloro in Bologna; ma di gran lunga più caro mi è di meritare il serto in sull' Arno:

Nonne triumphales melius pezare capillos, Et patrio (redeam si quando) abscondere canos Fronde sub inserta solitum flavescere, Sarno? Dantis Ecl. 1, v. 42-44. E questo mi gioverà allora quando il mio Paradiso potrà essere così noto al mondo, come or lo sono i bassi regni del dolore:

Quum mundi circumflua corpora cantu, Astricolaeque meo, velut infera regna, patebunt, Devincire caput hedera lauroque juvabit (69). Ib. v. 48-50.

(69) Correggiamo un grave sbaglio corso al Dionisi. Questi nel suo Aneddoto I, pag. 107, crede che la frase qui usata da Dante, circumflua corpora, significhi il Purgatorio. Ma tale espressione non altro certamente vuole indicare che i corpi i quali discorrono nell' immenso fluido dell' universo, vale a dire i Pianeti, che, secondo la dottrina di quei tempi, colle loro orbite o sfere formavano i diversi cieli, come il cielo di Venere, il cielo di Marte etc. Ecco la letterale traduzione dei tre versi: Quando fian pubblicati e saran noti col mio carme, siccome gli inferi regni, i corpi che si ruotano nell'universo e gli abitatori celesti (la qual duplice espressione non indicu se non la sola Cantica del Paradiso), allor mi gioverà cinger la fronte di edera e di alloro. Adunque la conseguenza che ne vorreb-, be trarre il Dionisi, che il Purgatorio fosse pubblicato assai tardi, nel 1319, è affatio insussistente, perchè a quest'epoca era già pubblicato non che composto. Le più accurate indagini ci portano a conoscere, che la prima Cantica fu pubblicata nel 1309, la seconda nel 1315, la terza nel 1321.

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