Balza nè selva al corso lor diè fine. 10 15 Di che principio ai topi era quel giorno. In lui rivolta la nemica gente Senti del braccio suo l'erculea possa. La crosta ancor che dura, ancor che grossa. 20 Di quella spada, e scricchiolar fêa l'ossa, Durò finchè il veder non venne manco. E laceri in più parti il petto e il fianco, Gl' inimici sentia, scagliò lontano. 25 30 V. 12. Rubatocchi. Gioachino Murat, detto così perchè aveva rubato quel bel tocco del regno di Napoli a Ferdinando Borbone. Il personaggio di Gioachino in questo poema è trasformato, serbatene quelle virtù militari per cui il figlio di un oste di Bastide avea meritato di esser chiamato l'Achille dei soldati di Napoleone; delle quali virtù, com'egli diede splendida prova allorchè al Pizzo fu fatto fucilare dal Borbone, così il poeta rende a lui testimonianza facendolo morire eroicamente sul campo di battaglia. V. 20. La crosta. Ricordiamoci che i nemici dei Topi erano i Granchi (cioè gli Austriaci) di dura cotenna. V. 27. Cfr. Petr.: 'l dì nostro vola - A gente che di là forse l'aspetta (Canz. Nella stagion.) — Quando la sera scaccia il chiaro giorno, - E le te nebre nostre altrui fann' alba (Sest. A qualunque animale). V. 28, 29. Afflitto. Alla latina, Sbattuto. Punte, Ferite di punta, da Dante (Purg., III) Poscia ch'i' ebbi rotta la persona - Di due punte mortali ec. V. 31-34. Lo scudo è oggetto di scagliò, che ha per soggetto sottin teso Rubatocchi. Storpiati e pesti ne restaron molti, Come per lieto avvenimento esulta Sempre? vera nessun giammai ti vide? [Canto V, st. 42-48.] 335 40 45 50 55 V. 40. Questo è detto contro l'opinione che crede alla Divinità curante delle cose umane, e ad una seconda vita. Un cenno consimile è dato ironicamente nel quarto verso della prima stanza del Poema; conforme alla dottrina di Lucrezio, il quale però ammetteva gli Dei (I, 57-62): Omnis Immortali ævo summa cum pace enim per se Divûm natura necesse est fruatur. - Semota ab nostris rebus sejuntaque longe, - Nam privata dolore omni, privata periclis, - Ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri, - Nec bene promeritis capitur, nec tangitur ira. V. 41-56. Quest' apostrofe alla virtù ci prova abbastanza quanto sia ingiusto attribuire al Leopardi un pessimismo che la rinnega; e nemmeno gli faremo il torto di appajarlo per questa sua apostrofe col Casti per le due negli Animali parlanti, l'una alla Verità e alla Virtù (XI, 118), l'altra alla santa Ragione e alla Virtù similmente (XXVI, 100, 101); parendoci non doversi confondere una poesia dedotta da un sentire schietto e profondo, e veramente estetica, con qualsiasi delle cento scappate declamatorie di quel poema fatte per partito preso ed a cuor leggiero. V. 47. Si prostra. Sottintendi, Lo spirto mio. V. 53-56. Se dopo l'età dei topi, non fosti rappresentata vanamente dai poeti, insomma, se hai esistito realmente negli uomini, se non peristi con Teseo o con Ercole, certamente però ti sei fatta veder più di rado e men bella. L'autore suppone bizzarramente l' età dei topi come anteriore all'eroica e come primitiva. Descrizione di un temporale. Una notte d'autunno, andando ei molto Schiantava i rami e gli arbori svellea, E con tale un fulgor, che tutto il loco Più volte indietro e innanzi il risospinse, Umor la coda e il dorso e il crin gli tinse, 10 15 20 80 35 V. 1. Ei è l'ambasciatore dei topi ai potentati dispotici, cioè Lecca fondi che noto era per vero - Amor di patria e del civil progresso. V. 13-16. Cfr. Ariosto, Orl. fur., XVIII, st. 142: Con tanti tuoni e tanto ardor di lampi, Che par che il ciel si spezzi, e tutto avvampi. Insino ai fimi, insino all' oceáno, Orbo lasciando il povero pastore. Fortuna e delle membra il picciol pondo 'Scamparo il conte dal rotare al fondo. Già ristato era il nembo, ed alle oscure 40 Nubi affacciarsi or l'una or l'altra stella Ciò pensando, e mutando ognor cammino, 65 Che tra le siepi e gli arbori stillanti [Canto VI, st. 24-32.] 70 V. 42-44. Avanti ad affacciarsi sottintendi il parean che vien dopo. V. 62. Lascerebbe il pelo. Morrebbe; e dicesi anche, Lasciar la pelle.Espressione popolare, con la quale, come con altre più addietro, l'autore temperò, convenientemente al genere della poesia, con qualche guizzo comico la gravità epica di questa stupenda descrizione, che non la cede alle consimili di Virgilio e dell' Ariosto. ALESSANDRO MANZONI. I. La famiglia Manzoni da Barzio di Valsassina venne a stabilirsi verso il 1710 nel comune di Lecco, acquistandovi un bel palazzo, detto il Caleotto, vicino a quella città e non fungi da Pescarenico e da altri luoghi, resi poi celebri nei Promessi Sposi; posteriormente messa su casa anche a Milano, usava di alternar la dimora fra la città e la sua villa. Al Caleotto fu allevato, e poi talvolta villeggiò Alessandro Manzoni fino a trentatrè anni, quando per le furfanterie di un procuratore costretto a vender quasi tutti i possedimenti della Brianza e il Caleotto stesso, dovette starsi contento d'allora in poi all'altra più comoda villa, che sin dal 1807 avea cominciato a fabbricare nella contrada detta Brusuglio, a circa tre miglia da Milano.' Nato in questa città il 7 marzo del 1785 da Pietro Manzoni e Giulia Beccaria, fece gli studi sotto la disciplina di frati; prima a Merate nella Brianza dal 1791 all'aprile del 1796 e a Lugano fino al settembre del 1798, presso i padri somaschi; poi, dopo breve soggiorno in casa, a Castellazzo di Barzi e a Milano, nel collegio Longone detto allora dei Nobili, presso i padri barnabiti. Ma, benchè chiuso ne' collegi e con siffatti educatori, sin da fanciullo aveva accolto nell' animo avidamente i nuovi sentimenti e concetti di libertà e di repubblica; e già a Lugano faceva spesso stizzire il buon padre Soave suo maestro, rifiutandosi di scrivere re, imperatore, papa con le iniziali majuscole. Dell'istruzione avuta nei collegi, e più specialmente in quello di Milano, egli manifestava dipoi la mala soddisfazione, giovane di vent'anni, così parlando a Carlo Imbonati: 1 Lett. 8 aprile 1807 a Claudio Fauriel, e lett. 6 marzo 1812 al medesimo, nella quale è una descrizione di questa villa. In questo vol., pagg. 204-206. |