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Balza nè selva al corso lor diè fine.
Fuggirian credo ancor, se i fuggitivi
Tanto tempo il fuggir serbasse vivi.
Fuggiro al par del vento, al par del lampo,
Fin dove narra la mia storia appresso.
Solo di tutti in sul deserto campo
Rubatocchi restò come cipresso
Diritto, immoto, di cercar suo scampo
Non estimando a cittadin concesso
Dopo l'atto de' suoi, dopo lo scorno

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Di che principio ai topi era quel giorno.

In lui rivolta la nemica gente

Senti del braccio suo l'erculea possa.
A salvarla da quel non fu possente

La crosta ancor che dura, ancor che grossa.
Spezzavala cadendo ogni fendente

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Di quella spada, e scricchiolar fêa l'ossa,
E troncava le branche, e di mal viva
E di gelida turba il suol copriva.
Così pugnando sol contro infiniti,

Durò finchè il veder non venne manco.
Poi che il sol fu disceso ad altri liti,
Sentendo il mortal corpo afflitto e stanco,
E di punte acerbissime feriti,

E laceri in più parti il petto e il fianco,
Lo scudo ove una selva orrida e fitta
D'aste e d'armi diverse era confitta,
Regger più non potendo, ove più folti

Gl' inimici sentia, scagliò lontano.

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V. 12. Rubatocchi. Gioachino Murat, detto così perchè aveva rubato quel bel tocco del regno di Napoli a Ferdinando Borbone. Il personaggio di Gioachino in questo poema è trasformato, serbatene quelle virtù militari per cui il figlio di un oste di Bastide avea meritato di esser chiamato l'Achille dei soldati di Napoleone; delle quali virtù, com'egli diede splendida prova allorchè al Pizzo fu fatto fucilare dal Borbone, così il poeta rende a lui testimonianza facendolo morire eroicamente sul campo di battaglia.

V. 20. La crosta. Ricordiamoci che i nemici dei Topi erano i Granchi (cioè gli Austriaci) di dura cotenna.

V. 27. Cfr. Petr.: 'l dì nostro vola - A gente che di là forse l'aspetta (Canz. Nella stagion.) — Quando la sera scaccia il chiaro giorno, - E le te nebre nostre altrui fann' alba (Sest. A qualunque animale). V. 28, 29. Afflitto. Alla latina, Sbattuto. Punte, Ferite di punta, da Dante (Purg., III) Poscia ch'i' ebbi rotta la persona - Di due punte mortali ec.

V. 31-34. Lo scudo è oggetto di scagliò, che ha per soggetto sottin teso Rubatocchi.

Storpiati e pesti ne restaron molti,
Altri schiacciati insucidaro il piano.
Poscia gli estremi spiriti raccolti
Pugnando mai non riposò la mano
Finchè densato della notte il velo
Cadde, ma il suo cader non vide il cielo.
Bella virtù, qualor di te s'avvede,

Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio: nè da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,
O nota e chiara, o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma imaginata ancor, di te si scalda.
Ahi ma dove sei tu? sognata o finta

Sempre? vera nessun giammai ti vide?
O fosti già coi topi a un tempo estinta,
Nè più fra noi la tua beltà sorride?
Ahi se d'allor non fosti invan dipinta,
Nè con Teseo peristi o con Alcide,
Certo d'allora in qua fu ciascun giorno
Più raro il tuo sorriso e meno adorno.

[Canto V, st. 42-48.]

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V. 40. Questo è detto contro l'opinione che crede alla Divinità curante delle cose umane, e ad una seconda vita. Un cenno consimile è dato ironicamente nel quarto verso della prima stanza del Poema; conforme alla dottrina di Lucrezio, il quale però ammetteva gli Dei (I, 57-62): Omnis Immortali ævo summa cum pace enim per se Divûm natura necesse est fruatur. - Semota ab nostris rebus sejuntaque longe, - Nam privata dolore omni, privata periclis, - Ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri, - Nec bene promeritis capitur, nec tangitur ira.

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V. 41-56. Quest' apostrofe alla virtù ci prova abbastanza quanto sia ingiusto attribuire al Leopardi un pessimismo che la rinnega; e nemmeno gli faremo il torto di appajarlo per questa sua apostrofe col Casti per le due negli Animali parlanti, l'una alla Verità e alla Virtù (XI, 118), l'altra alla santa Ragione e alla Virtù similmente (XXVI, 100, 101); parendoci non doversi confondere una poesia dedotta da un sentire schietto e profondo, e veramente estetica, con qualsiasi delle cento scappate declamatorie di quel poema fatte per partito preso ed a cuor leggiero.

V. 47. Si prostra. Sottintendi, Lo spirto mio.

V. 53-56. Se dopo l'età dei topi, non fosti rappresentata vanamente dai poeti, insomma, se hai esistito realmente negli uomini, se non peristi con Teseo o con Ercole, certamente però ti sei fatta veder più di rado e men bella. L'autore suppone bizzarramente l' età dei topi come anteriore all'eroica e come primitiva.

Descrizione di un temporale.

Una notte d'autunno, andando ei molto
Di notte, come i topi han per costume,
Un temporal sopra il suo capo accolto
Oscurò delle stelle ogni barlume;
Gelato un nembo in turbine convolto
Colmò le piagge d' arenose spume,
Ed ai campi adeguò così la via,
Che seguirla impossibil divenia.
Il vento con furor precipitando

Schiantava i rami e gli arbori svellea,
E tratto tratto il fulmine piombando
Vicine rupi e querce scoscendea
Con altissimo suon, cui rimbombando
Ogni giogo, ogni valle rispondea,

E con tale un fulgor, che tutto il loco
Parea subitamente empier di foco.
Non valse al conte aver la vista acuta
E nel buio veder le cose appunto,
Che la strada assai presto ebbe perduta,
E dai seguaci si trovò disgiunto.
Per la campagna, un lago or divenuta,
Notava e sdrucciolava a ciascun punto.
Più volte d'affogar corse periglio,
E levò supplicando all' etra il ciglio.
Il vento ad or ad or mutando lato

Più volte indietro e innanzi il risospinse,
Talora il capovolse, e nel gelato

Umor la coda e il dorso e il crin gli tinse,
E più volte, a dir ver, quell' apparato
Di tremende minacce il cor gli strinse,
Chè di rado il timor, ma lo spavento
Vince spesso de' saggi il sentimento.
Cani, pecore e buoi che sparsi al piano
O su pe' monti si trovâr di fuore,
Dalle correnti subite lontano
Ruzzolando fur tratti a gran furore

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V. 1. Ei è l'ambasciatore dei topi ai potentati dispotici, cioè Lecca

fondi che noto era per vero - Amor di patria e del civil progresso.

V. 13-16. Cfr. Ariosto, Orl. fur., XVIII, st. 142: Con tanti tuoni e tanto ardor di lampi, Che par che il ciel si spezzi, e tutto avvampi.

Insino ai fimi, insino all' oceáno,

Orbo lasciando il povero pastore.

Fortuna e delle membra il picciol pondo 'Scamparo il conte dal rotare al fondo. Già ristato era il nembo, ed alle oscure

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Nubi affacciarsi or l'una or l'altra stella
Quasi timide, ancora e mal sicure
Ed umide parean dalla procella.
Ma sommerse le valli e le pianure
Erano intorno, e come navicella
Vòta fra l'onde senza alcuna via
Il topo or qua or là notando gía.
E in suo cor sottentrata allo spavento
Era l'angoscia del presente stato.
Senza de' lochi aver conoscimento
Solo e già stanco, e tutto era bagnato.
Messo s'era da borea un picciol vento
Freddo, di punte e di coltella armato,
Che dovunque, spirando, il percotea
Pungere al vivo e cincischiar parea;
Si che se alcun forame o se alcun tetto
Non ritrovasse a fuggir l'acqua e il gelo,
E la notte passar senza ricetto

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Ciò pensando, e mutando ognor cammino,
Vide molto di lungi un lumicino,

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Che tra le siepi e gli arbori stillanti
Or gli appariva ed or parea fuggito.
Ma s'accorse egli ben passando avanti,
Che immobile era quello e stabilito,
E di propor quel segno ai passi erranti,
O piuttosto al notar, prese partito:
E così fatto più d'un miglio a guazzo
Si ritrovò dinanzi ad un palazzo.

[Canto VI, st. 24-32.]

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V. 42-44. Avanti ad affacciarsi sottintendi il parean che vien dopo. V. 62. Lascerebbe il pelo. Morrebbe; e dicesi anche, Lasciar la pelle.Espressione popolare, con la quale, come con altre più addietro, l'autore temperò, convenientemente al genere della poesia, con qualche guizzo comico la gravità epica di questa stupenda descrizione, che non la cede alle consimili di Virgilio e dell' Ariosto.

ALESSANDRO MANZONI.

I. La famiglia Manzoni da Barzio di Valsassina venne a stabilirsi verso il 1710 nel comune di Lecco, acquistandovi un bel palazzo, detto il Caleotto, vicino a quella città e non fungi da Pescarenico e da altri luoghi, resi poi celebri nei Promessi Sposi; posteriormente messa su casa anche a Milano, usava di alternar la dimora fra la città e la sua villa. Al Caleotto fu allevato, e poi talvolta villeggiò Alessandro Manzoni fino a trentatrè anni, quando per le furfanterie di un procuratore costretto a vender quasi tutti i possedimenti della Brianza e il Caleotto stesso, dovette starsi contento d'allora in poi all'altra più comoda villa, che sin dal 1807 avea cominciato a fabbricare nella contrada detta Brusuglio, a circa tre miglia da Milano.' Nato in questa città il 7 marzo del 1785 da Pietro Manzoni e Giulia Beccaria, fece gli studi sotto la disciplina di frati; prima a Merate nella Brianza dal 1791 all'aprile del 1796 e a Lugano fino al settembre del 1798, presso i padri somaschi; poi, dopo breve soggiorno in casa, a Castellazzo di Barzi e a Milano, nel collegio Longone detto allora dei Nobili, presso i padri barnabiti. Ma, benchè chiuso ne' collegi e con siffatti educatori, sin da fanciullo aveva accolto nell' animo avidamente i nuovi sentimenti e concetti di libertà e di repubblica; e già a Lugano faceva spesso stizzire il buon padre Soave suo maestro, rifiutandosi di scrivere re, imperatore, papa con le iniziali majuscole. Dell'istruzione avuta nei collegi, e più specialmente in quello di Milano, egli manifestava dipoi la mala soddisfazione, giovane di vent'anni, così parlando a Carlo Imbonati:

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1 Lett. 8 aprile 1807 a Claudio Fauriel, e lett. 6 marzo 1812 al medesimo, nella quale è una descrizione di questa villa.

In questo vol., pagg. 204-206.

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