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la sua generosità innata, per l'inesperienza, per la boria di voler mantenuto il lustro della famiglia e anche per le vicende politiche suaccennate, condusse il ricco patrimonio quasi a ruina. Interdetto perciò legalmente, si ritrasse nel 1803 dall'amministrazione della cosa domestica, e, benchè prosciolto nel 1820, non la riprese mai più. Era a lui succeduta in quell' ufficio, e lo tenne poi sempre, la recanatese Adelaide de' marchesi Antici sua moglie. Donna di senno virile, austera, inflessibile, si propose di ristaurare lo sconquassato patrimonio, e non dubitando di vendere anche le sue gioje e di lasciare mal soddisfatti per lunghissimo tempo i legittimi desiderî de' figli, e scarso a denari anche il marito, dopo una trentacinquina d'anni riuscì nell' intento. Il patrimonio della casa era già rimesso nel pristino fiore, quando Giacomo venne a morte.

II. In tal casa e da tali genitori egli nacque il 29 giugno del 1798. Fu educato e istruito in famiglia coi fratelli minori Carlo e Paolina, ed ebbe a maestri due sacerdoti; prima Giuseppe Torres gesuita messicano, riparatosi dalla Spagna in Recanati dopo la soppressione della Compagnia, quindi dal 1809 il marchigiano Sebastiano Sanchini di Saludeccio, stati già precettori il secondo in Pesaro al conte Francesco Čassi cugino di Monaldo, il primo in Recanati a Monaldo stesso. Ma nè l'uno, nè l' altro diede al fanciullo più che un' elementare e volgarissima istruzione; anzi il buon Sanchini, che verso il 1811 gli faceva studiare anche un po' di logica, finì col dire che non sapeva che più insegnargli; e partitosi da quella casa, dove il gesuita s' era piantato e non ne uscì se non morto, dimorando sempre in Recanati visse fino al 1835, caro sempre a Giacomo, che ne intese la morte con dispiacere. A dieci anni aveva questi già cominciato a studiare da sè; dai tredici ai diciassette si diede tutto alla filologia greca e latina; se non che in quel tempo il giovinetto infelice, gracile di complessione e già, come il suo fratello Carlo a me attestava, sano e diritto, divenne infermiccio per sempre e gibboso. Quella deformazione, operatasi lentamente tra le fatiche indicibili durate in tali studî, era già compíta nell'agosto del 1816, quando egli la prima volta fu conosciuto a Recanati dal tipografo milanese Antonio Fortunato Stella, che ne avvertì quindi il Giordani. Onde questi, entrato poco dopo in relazione epistolare col giovinetto, avendo notizia del miserando caso anche prima di accertarsene

coi proprî occhi, cominciò a raccomandargli caldissimamente la moderazione nello studio, e lo stesso Leopardi a lui ingenuamente confessava la propria calamità; le quali cose risultano tutte dalla loro affettuosa e celebre corrispondenza.

Il conte Monaldo intanto levava a cielo il suo primogenito, mandandone gli scritti anche in Roma agli eruditi per metterlo in credito e procurargli nominanza; tutta la famiglia poi, specialmente dopo la deformazione della persona, avrebbe voluto avviarlo per la carriera ecclesiastica e farne un prelato, un vescovo, un cardinale. Il giovinetto, che, secondo l'uso dei tempi, vestiva allora e continuò fin verso il ventunesimo anno a vestire da abate, stette su le prime esitante; ma indi a poco mostrò chiaro di avere altro per la mente, anche con le due canzoni a Dante e all'Italia, che a mezz' ottobre del 1818 avea già composte. Monaldo, conosciute che l' ebbe nella stampa eseguitane poco dopo a Roma, fece ad esse mal viso, non per invidia verso il figlio o pretensione di emularlo nella gloria letteraria, come falsamente fu detto, ma per i sentimenti contenuti in quelle, opposti del tutto a' suoi, e da lui detestati. Attribui Monaldo quella mutazione, primamente politica, poi filosofica e religiosa, a Pietro Giordani, che teneva da qualche tempo corrispondenza epistolare con Giacomo, e nel settembre del 1818 gli aveva fatta una visita in Recanati, trattenendovisi una quindicina di giorni. Quanto alla corrispondenza epistolare, nelle lettere a lui indirizzate dallo scrittor piacentino, e prima e dopo di quella visita, se vi sono talora calde parole di amor patrio, non si trova alcuna espressione che potesse offender le convinzioni di un cristiano cattolico. E anzi, mentre Giacomo aveva dalla famiglia eccitamenti per mettersi nella carriera ecclesiastica, il Giordani, saputa la cosa, credette di dargli per lettera (sia pure con diverso fine) i conforti stessi. Nè si può ammettere che il Leopardi avesse bevuti que' sentimenti dalle pubblicate prose del Giordani; poichè, senza dire che queste, e massime le fino allora divulgate, non potevano produr nella mente di chicchessia una sì grande mutazione, il fatto è che il giovinetto, come risulta dal suo Epistolario, ancora non le aveva lette. Si dovrà credere che tale pervertimento, come lo chiamava il padre, fosse stato operato dal Giordani con la viva voce nei pochi giorni della sua visita in Recanati? Prima di

tutto, io non credo ch'egli in casa Leopardi si mettesse per proposito a far segretamente discorsi tali, che sapeva non accetti al gentiluomo che lo aveva accolto; e, lasciando anche ciò, le pubblicate lettere di Giacomo, anteriori a quel tempo, a chi ponderatamente le legga mostrano chiaro che quella mutazione era tutta intima a lui, e già tanto avanzata prima della visita del Giordani, da potersi tenere per fermo che senza le occulte persuasioni di questo, se pur vi furono, sarebbe venuta nello stesso modo al suo esplicamento. Che se noi siamo testimonî a noi stessi di tante trasformazioni interiori dopo la prima educazione, dovremo far caso che si avverasse ciò in un Leopardi? Bensì al Giordani fu egli debitore di quelle calde esortazioni, di quei fatidici presagî di gloria letteraria, senza i quali in quella disperazione avrebbe forse abbandonato gli studî. E per gran parte, nei primordî, gli fu anche debitore della sua fama; poichè il celebre e autorevolissimo scrittor piacentino, mentre il giovane era tuttavia ignoto, lo annunziò e predicò per grandissimo, e poi ebbe anche la generosità, piuttosto unica che rara, di proclamar sè stesso inferiore a lui nella prosa, mentre dall'Italia a que' tempi era giudicato egli il primo fra tutti.

III. Il 1819 fu l'anno della sua maggiore tristezza, raggravata da una malattia d'occhi e di nervi, che gl'impedi per più mesi ogni applicazione, e dalle inutili istanze di trasferir la dimora in qualche grande città, dove potesse perfezionare i suoi studî, e porsi in evidenza. Per due ragioni questo invincibile desiderio. gli era disdetto; l' una le non buone condizioni economiche della famiglia, l'altra, e principalissima, la paura che il giovane, alienandosi anche più da quelle massime politiche e religiose che i genitori stimavano indispensabili a un galantuomo, si pervertisse del tutto. E già per questo conto entrati essi in gravi sospetti che il carteggio del figlio con letterati italiani, noti per sentimenti di patriottismo, contribuisse a quel pervertimento, fu istituita in casa sul povero giovane una censura domestica per vigilare, sorprendere e all' uopo intercettare la sua corrispondenza. Ond' egli, ignaro delle condizioni economiche della casa, che dai genitori, fors' anco per boria, erano tenute a tutti occultissime come un profondo segreto di governo politico, irritandosi ognora più, divenne aspro, cupo e taciturno, sino a che nel luglio di quell'anno risolse di fuggire dalla casa paterna e

fuori di stato. Scopertosi il tentativo, la divisata fuga fortunatamente andò a vuoto; e Giacomo restò in casa a mordere la catena, senza speranza di uscir mai da Recanati. Ma finalmente, mercè l'interposizione del marchese Carlo Antici suo zio, datagli dal padre la sospirata licenza, nel novembre del 1822 partito alla volta di Roma, traversava quegli Appennini, che da tanti anni sospirava di varcare,

arcani mondi, arcana

Felicità fingendo al viver suo.

D'allora in poi, dei quindici anni che potè trascinare la vita dolorosa, ne passò la massima parte fuori di Recanati. La sua più lunga dimora in questa città fu dopo il suo primo ritorno, dal maggio del 1823 fino al luglio del 1825, in cui potè ripartire senza aggravio della famiglia, recandosi à Milano presso il tipografo Antonio Fortunato Stella, col quale si accordò a fargli de' lavori letterarî per una retribuzione mensile di diciotto scudi. Più che Milano però gli fu soggiorno prediletto Bologna per la grande stima in che ivi era tenuto, per care amicizie e teneri affetti; onde dal settembre del 1825 vi si trattenne fino al novembre dell' anno seguente, e, passato l'inverno a Recanati, nell' aprile del 1827 vi ritornò. Venutogli poi desiderio di veder la Toscana, si trasferì dopo due mesi a Firenze, di là nell' ottobre a Pisa, e nel giugno del 1828 a Firenze di nuovo; donde nel novembre a Recanati per l'ultima volta, accompagnato in quel viaggio da un giovane che dovea del suo nome riempire il mondo, Vincenzo Gioberti, il quale soffermossi in casa de' Leopardi un pajo di giorni.

Quando, uscito la prima volta da Recanati, si condusse a Roma, in mezzo al frastuono, alle grandezze ed al fasto di quella metropoli, cominciò ben presto a sentire il desiderio della piccola città natale e della famiglia; e similmente appresso nelle dimore a Bologna e a Firenze; del che fa esuberante testimonianza il suo Epistolario. Erasi figurato (e questa immaginazione in Recanati lo riassaliva sempre) di poter trovare fuori del paese natío quella felicità, alla quale ardentemente aspirava; e poichè questa gli fuggiva sempre davanti, e i malori che lo avevano reso infelicissimo, anzichè cessare, ognor più si aggravavano, egli spesso risospirava i luoghi che prima aveva odiati. Se non che nell'ultima dimora a Recanati, egli che nelle maggiori città

d'Italia aveva ammirazione dal fiore dei dotti e dei letterati, doveva ben più di prima indignarsi contro i suoi concittadini per quella noncuranza e per quei dispregî, dei quali in tante sue lettere si lamenta. Anche quel soprannome che gli davano popolarmente, chiamandolo il gobbo de' Leopardi, e scherzandoci sopra, riusciva a lui fieramente nojoso. Indi quell'ira, che a lungo compressa scoppiò alfine splendidamente nel canto delle Ricordanze, scritto ivi da lui prima dell'ultima partenza sua e prima ancora di averne la speranza. Dopo la pubblicazione di tale poesia, doveva anche per ciò sentire più forte che mai la ripugnanza di ritornare in quella città, che nella lettera Agli Amici suoi di Toscana1 chiamava < sepolcro dei vivi; › ed effettivamente risolse di non rivederla mai più. Ma il desiderio del ritorno da esso negli ultimi anni della sua dimora in Napoli manifestato al padre più volte, e segnatamente con tanta affettuosità nella lettera scritta pochi giorni avanti alla morte, non posso indurmi a credere che non fosse sincero. Nè a Recanati mancarono a lui vivo estimatori, benchè niuno conoscesse appieno la sua grandezza; la quale nel natio luogo come da per tutto ha giganteggiato dopo la morte.

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IV. - Essendogli già cessata fin dall'estate del 1828 la retribuzione mensile, che gli passava il tipografo Stella, aveva tentato altre vie a poter vivere fuori di casa senza aggravio della famiglia, e fatto pratiche, o piuttosto rinnovatele, per ottenere nello stato pontificio qualche impiego e specialmente una cattedra universitaria. Ma dal governo papale non potè ottenere mai nulla. Bensì, per opera del celebre medico Tommasini, gli fu fatta la proposta della cattedra di storia naturale a Parma, che egli, come di materia troppo aliena da' suoi studî, non volle accettare; e avrebbe potuto avere una cattedra fuori d'Italia, anche in Germania, dove per il suo sapere filologico era altamente pregiato; ma con quella salute come avventurarsi a un clima sì rigido, e per lui sicuramente micidiale? Se non che, saputosi a Firenze il misero stato e il desiderio di lui, Pietro Colletta con altri generosi amici gli procurò e offerse una somma di danaro a titolo di ricompensa per una nuova edizione delle sue poesie, da loro medesimi architettata; la quale realmente fu fatta nel 1831, ed è quella che abbiamo mentovata poco più addietro. Così egli, abbandonata ai primi

In questo vol., pag. 39.

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