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se fosse ascoltato, per tanti che, non vedendosela mai comparire davanti, non si stancano perciò dall' andarne in cerca.

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XII. Il Manzoni ebbe, oltre l'artistico, anche il genio critico, e lo esercitò nella letteratura, nella storia e nella morale. Quanto alla critica storica e morale, ricorderemo prima il lavoro polemico, a cui egli pose mano, esortatovi dal suo confessore monsignor Tosi, per confutare un giudizio sfavorevole alla morale della Chiesa cattolica, registrato dal Sismondi nell' ultimo volume. della sua Storia delle repubbliche italiane. Di questo lavoro d'occasione, che dalla primavera del 1818 gli costò l'occupazione di un anno circa con la sospensione del Carmagnola, egli non rimase ben contento, anche perchè reputava le confutazioni un genere di scrittura di cui nessuno ha sopravvissuto. Pubblicatane perciò, verso il giugno del 1819, la Parte prima, non condusse mai a fine la seconda, limitandosi dipoi ad aggiungervi, sotto forma di Appendice al capitolo terzo, un ragionamento, tirato a fil di logica, contro il sistema che fonda la morale sull' utilità. Quanto al pregio di quest' opera polemica, crediamo ben fondato il giudizio del Sismondi stesso, il quale disse a Giuseppe Giusti che era ammirato dalla maniera urbana con la quale fu distesa; lodò la sincerità dell' autore; aggiunse poi.... che gli pareva che si fosse partito da un punto molto diverso dal suo, perchè esso considerava le cose come sono attualmente, e [il] Manzoni come dovrebbero essere. > A maggior compimento si può anche affermare che l'opera contiene una giusta difesa degl' Italiani dalla taccia di corruttela. Essa, del resto, è cronologicamente la prima sua prosa, e ci si sente più che nelle altre il franceseggiare. Notabilissimi sono per tale rispetto gli emendamenti che l'autore vi fece nelle seguenti edizioni (1845, 1870), come anche per le cose; e in prova basta esaminare il capitolo ultimo. Fra tutti gli scritti suoi di prosa questo è l' unico che mantenga nella forma una costante gravità; l'ironia e il frizzo bonario tanto abituali all'autore, non vi compariscono, neppure nell'edizioni emendate; dove le fiorentinerie più vivaci tanto care all'autore non sono state ammesse. Al Manzoni non falliva certo il senso del decoro. Appartengono più stret

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1 Lett. a Claudio Fauriel, 28 luglio 1819.

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Epistolario di G. Giusti. Firenze, Le Monnier, 1803, vol. I, lett. 1.

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tamente alla critica storica il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, composto e pubblicato come illustrazione all' Adelchi, e La Colonna Infame. In questo Discorso l'autore, ricercando le vere condizioni degl' Italiani sotto il dominio dei Longobardi, prova irrefutabilmente che quelli non formarono mai con questi un popolo solo, come fino allora si era creduto, tenta di giustificare i papi dell' aver chiamato i Franchi in Italia, e spiega la cagione generale della facile vittoria dei Franchi su i Longobardi. La Colonna Infame, lavoro posteriore, che, terminato fin dal 1829, si pubblicò con la seconda edizione dei Promessi Sposi nel 1840, fu creduto a torto, prima che venisse fuori, un altro romanzo; donde seguì nel pubblico una gran delusione, non corrispondendo il lavoro alla generale aspettativa. Esso difatti non è che una disquisizione storica e giuridica, la quale si conclude provando che l'infame condanna dei supposti untori fu effetto non già, come avevano opinato altri, delle istituzioni d'allora, ma del malvolere dei giudici. Quanto all' elocuzione, ha questo di particolare, che è il primo lavoro stampato dall'autore a dirittura con la lingua viva, secondo le norme stesse ch' ei seguiva nella correzione del già pubblicato romanzo. In questi lavori di critica storica, come anche in tutti gli studi storici fatti per altri fini, egli, fedele alla sua massima di non accettar senza esame gli altrui giudizî, venne a conclusioni nuove, le più importanti incontrastate, alcune disputabili, utili complessivamente ai progressi di tali studî pel metodo rigoroso che dall'autore vi fu adoperato, e servì di fondamento e di guida alla posteriore scuola storica italiana, e a quella specialmente che fu detta neoguelfa. Il Manzoni stesso meditò una storia della rivoluzione francese, e pose mano al lavoro, ma l' opera è restata imperfetta e inedita.

I suoi lavori di critica letteraria riguardano non pur le teoriche della scuola romantica, ma inoltre le questioni su la lingua italiana, che però anch' esse si ricollegano a quelle. E prima di tutto, il suo Epistolario,3

11 Promessi Sposi, storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. Edizione riveduta dall'autore. Storia della Colonna Infame, inedita. Milano, dalla tipografia Guglielmini e Redaelli, 1840; in 80 grande.

CESARE CANTÙ, Alessandro Manzoni, Reminiscenze. Milano, 1882, vol. II, pag. 61.

Epistolario di Alessandro Manzoni raccolto e annotato la Giovanni Sforza. Milano, Carrara, 1882, 1883. Due volumi.

dove il copioso carteggio col Fauriel e anche altre lettere sono scritte in francese, nella maggior parte si riferisce alla trattazione di materie concernenti i suoi lavori e i suoi studî; e non essendovi corrispondenza espansiva di sentimenti e di affettuosità familiari e amichevoli, esso principalmente per la critica ha molta importanza. Quanto poi agli scritti più speciali, quelli del primo genere sono una Lettera al signor Chauvet su l'unità di tempo e di luogo nella tragedia, scritta in francese nel 1820, e pubblicata due anni dopo con qualche correzione di lingua da Claudio Fauriel per entro al volume della sua traduzione delle tragedie manzoniane; una Lettera al marchese Cesare D'Azeglio sul romanticismo (1823); 2 un ragionamento intitolato Del romanzo storico, e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione; in fine il dialogo Dell' invenzione, in cui l'autore, impigliandosi un po' nella metafisica, applica all' estetica le dottrine filosofiche del Rosmini. I lavori del secondo genere sono principalmente una Lettera a Giacinto Carena sulla lingua italiana (1845), e una relazione al ministro dell'istruzione pubblica col titolo Dell' unità della lingua e dei mezzi di diffonderla (1869), che poi gli diede occasione anche ad altri minori scritti polemici. Nella critica letteraria come nella storica, il Manzoni non si acqueta mai alle altrui sentenze; ma tutto discute. Gran maestro nel confutare, adoperando sempre dignità e pacatezza, non senza però qualche tocco di fina ironia, va dirittamente a demolire le asserzioni contrarie; nei ragionamenti in generale tira sempre gli argomenti dalle viscere della materia e dalle

1 Lettre à M. C*** sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, etc. 2 Fu pubblicata, senza il consentimento dell'autore, per la prima volta nel 1847 a Parigi, e quindi da lui stesso accolta nell'edizione del 1870, in cui fra le modificazioni, anzi mutazioni, è notabilissima questa; che dove prima aveva scritto, « Il principio [sul positivo romantico] mi sembra poter esser questo: che la poesia o la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo; » egli soppresse le citate parole e la susseguente dimostrazione, contentandosi di mantener la conclusione dubitativa ristretta solo a uno dei tre punti: Non voglio dissimulare.... quanto indeterminato, incerto e vacillante nell'applicazione sia il senso della parola « vero» riguardo ai lavori d'immaginazione. » Per questa mutazione credete che rimanesse sconcertato e confuso il servum pecus che per diecine d'anni aveva giurato su le parole di lui? Niente affatto; anzi i più pare che della mutazione non si siano nemmeno accorti; e alcuni han perfino seguitato ad almanaccare su quelle parole stesse, come se l'autore non le avesse mai cancellate.

proprie osservazioni e riflessioni, fa uso scientifico dei documenti, e procede con un'analisi rigorosa a cui non sfugge alcuna parte del soggetto. Pur talvolta sminuzzando troppo le cose par che dia nel sottile e nel sofistico ancora; e talvolta nelle sue conclusioni passa oltre il segno, dove posa intera la verità; come nella questione della lingua, di cui faremo cenno più avanti; come in quella parte del Discorso su i Longobardi dove, dopo aver dimostrato l' oppressione degli Italiani, vuole anche toglier loro ogni esser civile, ogni ombra di convivenza municipale in que' miseri tempi; come pure in quella parte del Discorso sul romanzo storico, dove dalla reale difficoltà d'identificare la poesia e la storia in un'opera d'arte tras corre a volerne dimostrare l'impossibilità; come nel Dialogo sull'invenzione, dove in filosofia trova buono e vero unicamente il sistema di Antonio Rosmini; al quale altrove,' sia pure < non tanto come scrittore, quanto come autore, fra i moderni prosatori italiani, che strapazza tutti quanti, attribuisce il primato! In conclusione, la sua critica, giusta per lo più, se non sempre, è originale sempre ed innovatrice, e gli scritti ad essa attinenti han valore non solo per le cose, ma anche per l'arte; la quale del resto, ben più sfolgora nelle opere poetiche, e sovranamente nel romanzo.

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XIII. Nelle dottrine della scuola romantica egli considerava due parti principali, la negativa e la positiva; la prima delle quali tendeva ad escluder dalle opere letterarie l'uso della mitologia, l'imitazione servile dei classici e le regole fondate su fatti speciali e su l'autorità dei retori, non su principî generali e su la natura della mente umana; l'altra, più indeterminata e indeterminabile, tendeva a fare oggetto delle opere letterarie il vero come l'unica sorgente di un diletto nobile e durevole, e a richiamarle ad argomenti che potessero interessare non solo i più dotti, ma un maggior numero di lettori, e perciò non alieni dalla vita moderna.2 Nello stile voleva l'originalità e la popolarità mediante la concezione del vero e la sua più semplice espressione, escluso affatto il frasario convenzionale e accademico. É queste E sono proprie veramente dello stile suo, massime nei Promessi Sposi.

1 Lett. all'Imperatore del Brasile, 14 giugno 1854.

2 Lett. a Cesare D'Azeglio, Sul Romanticismo, nelle Opere varie. Milano, 1870, pag. 779 e seg.

Quanto alle questioni di lingua, il punto fondamentale della dottrina manzoniana nell'ultimo suo periodo è che bisogna adoperar solo la lingua vivente e che questa è tutta a Firenze, che di là gl' Italiani devono prenderne l'uso, bandito affatto quello degli altri dialetti ed il letterario, perchè questi o si conformano coll'odierno fiorentino, e allora non occorre aggiungerli ad esso, o se ne discostano, e convien rifiutarli. Con tal mezzo credeva il Manzoni potersi effettuare l'unità della lingua in Italia, concetto ch' egli vagheggiava anche per l'amore non mai smentito all' unità politica della nazione. Questa opinione, riguardata negli effetti, è riuscita per un verso dannosa distogliendo molti dallo studio della lingua nei grandi scrittori, e dando appiglio a non pochi, che falsamente si vantano seguaci del Manzoni, di scrivere secondo un uso qualsisia e ad altri, a dir così, più papisti del papa, di razzolarla anche fra i riboboli delle ciane con tutti i difetti della pronunzia, laddove l'archimandrita voleva la lingua fiorentina purificata e corretta nelle bocche delle persone civili; per un altro verso è stata ed è utilissima, in quanto che ha contribuito a richiamare gli studiosi all'esame dei linguaggi viventi in tutte le parti d'Italia, ha ravvivata negli scrittori la cura dello scrivere con vivezza e spigliatezza moderna e viene rinfrescando e accrescendo il patrimonio della lingua scritta. Riguardata poi in sè, ha certo un gran fondamento di vero ed è accettabile, purchè sia conciliata coll'uso letterario in quella parte, ed è la massima parte, in cui da oltre a cinque secoli esso dura costante, ed è veramente uso vivo; vivo nelle parole che si sentono nelle bocche del popolo toscano e dove più dove meno anche di altre parti d'Italia, vivo nella varietà infinita delle locuzioni create, conforme all' indole della lingua, dai grandi ingegni. E donde se non dall'uso letterario il Manzoni stesso apprese la lingua ch' egli adoprò per gl' Inni sacri, per le Odi e per le Tragedie? Lingua schiettamente italiana, schiettamente moderna, ancorchè egli non l'avesse imparata con lo studio del vivente linguaggio fiorentino. E difatti, scrivendo al Fauriel il 3 novembre 1821, gli diceva: Nella disperazione di trovare [quanto alla lingua] una regola costante e speciale per far bene questo me

1 Lett. a Giuseppe Borghi, 16 giugno 1828; ad Alfonso Casanova, 30 marzo 1871; ec.

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