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stiere [di scrittore], io credo intanto che anche noi italiani possiamo avere una prospettiva approssimativa di stile, e che per trasportarne il più che si può negli scritti bisogna pensar molto a ciò che si ha da dire, aver molto letto gl'italiani detti classici, e gli scrittori delle altre lingue, i francesi soprattutto, aver parlato di materie importanti coi propri concittadini; e che per tal modo può acquistarsi una certa prontezza a trovar nella lingua che si chiama buona ciò ch'essa può fornire ai nostri bisogni attuali, una certa attitudine a estenderla per analogia, e un certo tatto per tirare dalla lingua francese ciò che può essere mescolato nella nostra senza urtare per forte dissonanza e senza apportarvi dell' oscurità. » Nè si vuol negare che se egli fin d'allora, anzi fin da prima, avesse imparato, come fece dipoi, il vivente linguaggio fiorentino, congiungendone lo studio a quello degli scrittori, sarebbe riuscito nelle sue poesie a fare un' elocuzione in qualche parte più viva e spigliata; ma altro è questo, altro il voler sostituito l' uno all'altro; che sarebbe norma gretta, fallace e dannosa. Quanto alla sua idea di arricchir con la francese l'italiana, difficilmente essa troverà approvatori, e tanto meno l'altra, manifestata prima, che in realtà sia più povera questa.

XIV. La necessità di conoscere e usare il vivente linguaggio toscano, anzi fiorentino, il Manzoni doveva sentirla tanto più, e la sentì effettivamente, nella composizione del romanzo, dove è rappresentata nelle sue immense varietà la vita reale e comune. Ma non è vero che egli nella prima edizione di quest'opera non ne avesse avuto niuna cura. Già fin dal 1821, nella lettera al Fauriel citata qui sopra, riconosceva che la lingua italiana parlata bisognava cercarla in Toscana; soggiungendo subito una verità, nella quale avrebbe poi dovuto insister sempre, cioè ch'essa è insufficiente ad esprimere ogni cosa, e specialmente in materie scientifiche, donde la necessità di ricorrere anche all'uso letterario. Una lettera di Giulia sua madre, scritta nel marzo 1825, al tempo delle correzioni e della stampa del secondo volume del romanzo, ci fa sapere che Alessandro aveva sempre in capo il Mercato vecchio, e che nell'aspettativa di mettere ad effetto la sua visita a Firenze < straziava gli orecchi della famiglia con tutti i suoi toscanesimi. Uscito in luce il romanzo con molte im

1 Nel vol. Il Manzoni e il Fauriel ec., Barbèra, 1880, a pag. 221.

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perfezioni rispetto alla lingua, specialmente improprietà, francesismi e lombardismi, l'autore nella susseguente dimora di un pajo di mesi a Firenze innamoratosi più che mai di quel vivente linguaggio, si risolse di correggere a norma di esso il libro da un capo all' altro; e con un lavoro assiduo di dodici o tredici anni ne venne a capo, mantenendo però, come già il Leopardi ne' suoi consimili emendamenti, integro l'organismo dell'opera; il che prova che il lavoro estetico fin dalla sua prima composizione era sostanzialmente perfetto. In queste correzioni l'autore riuscì quasi sempre felicemente; se non che, dovendo, egli, non nato e non vissuto in Toscana, molto valersi e di amici letterati, di vocabolarî e di altri mezzi indiretti, cade in qualche inesattezza, e fa sentire un' affettazione anche più viva perchè quel fiorentineggiare mal consuona col tenor generale della sua dicitura; tanto che esso talvolta ci riesce troppo toscano o troppo poco, secondo che poco o troppo risciacquò, per usare la modesta frase di lui, que suoi cenci in Arno. E poichè siamo in questo argomento, vogliamo anche notare che nell' elocuzione manzoniana, più però negli scritti critici che nel romanzo, ricorrono inoltre durezze di varie maniere, che con quella popolarità dello stile stuonano maggiormente, e spezzamenti e torniture, forse più che alla lingua italiana particolari alla francese, con la quale egli, anche troppo, aveva pensato e scritto nella sua gioventù, e che, per testimonianza sua, sapeva adoperare con correttezza ben più franca e sicura che non la nostra. Ma il fatto è, per tornare a quelle correzioni, ch'egli in esse cercò e ottenne soprattutto la proprietà della lingua e della elocuzione, e non solo, come generalmente si crede, coll' uso del parlar fiorentino, ma, ben più largamente, con tutte le norme ed i mezzi dell' arte del dire; e a persuadersene basta gettar gli occhi su le pagine dell'edizione de' Promessi Sposi, dove la prima e la seconda lezione sono stampate a riscontro; e gioverebbe anche fare gli stessi paragoni nelle prose minori, dove nessuno li ha guardati. È utile, specialmente per i giovani che attendono all'arte difficilissima dello scriver bene, esaminare questi emendamenti a riscontro con la lezione prima; è utile, purchè però

Ebbe pure grandissima cura dell' interpunzione, la quale negli scritti suoi è sempre meditata, anche dove può sembrar difettosa e non imitabile. 2 Vedi la lettera al Casanova, in questo vol., pagg. 170-179.

si faccia con misura, e non diventi una manía, come già vediamo in qualche scuola su i Promessi Sposi, quasichè in essi non vi fosse altro di buono e di bello. Lo studio di questo, come degli altri libri eccellenti, limitato a tali esercizi isterilisce gl' ingegni, e restringe miseramente l'ufficio della critica, la quale anche nelle scuole, a riuscir proficua, deve essere comprensiva. Del resto le opere letterarie del Manzoni vogliono considerarsi da un punto ben più alto. Egli come artista e come critico produsse sì nel di dentro (per ripigliare le espressioni del Leopardi) e sì nel di fuori della nostra letteratura un grande innovamento. La scuola romantica della prima maniera, che, specialmente per la materia poetica, a un dipresso va dal 1815 fin verso il 1840, dalla pubblicazione degl' Inni sacri a quella del Marco Visconti e dell' Ulrico e Lida, inalzandosi sempre fino alla pubblicazione dei Promessi Sposi e cominciando a declinare subito dopo, non accolse, nè tutto esaurì in sè stessa l'innovamento manzoniano. Il suo spirito vivificatore sovrastò al moto di quella scuola, e le sopravvive.

[DALLE] LETTERE

A Giovanni Wolfango Goethe.

Milano, 23 gennaio 1821.

Per quanto screditati sieno i complimenti e i ringraziamenti letterarii, io spero ch' ella non vorrà disgradire questa candida espressione d' un animo riconoscente. Se quando io stava lavorando la tragedia del Carmagnola, alcuno mi avesse predetto ch'essa sarebbe letta da Goethe,1 mi avrebbe dato il più grande incoraggiamento, e promesso un premio non aspettato. Ella può quindi immaginarsi ciò ch' io abbia sentito in vedere ch'ella si è degnata di osservarla tanto amorevolmente, e di darne dinanzi al pubblico un così benevolo giudizio. Ma, oltre il prezzo che ha per qualunque uomo un tal suffragio, alcune circostanze particolari l'hanno renduto per me singolarmente prezioso; e mi permetto di brevemente esporgliele, per motivare la mia doppia gratitudine.

Vedi in questo vol., nota a pag. 34.

MESTICA.

II.

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Senza parlare di quelli che hanno trattato il mio lavoro con aperta derisione, quei critici stessi che lo giudicarono più favorevolmente, in Italia e anche fuori, videro quasi ogni cosa in aspetto diverso da quello, in cui io l'aveva immaginata; vi lodarono quelle cose, alle quali io aveva dato meno d'importanza; e ripresero, come inavvertenze e come dimenticanze delle condizioni più note del poema drammatico, le parti che erano frutto della mia più sincera e più perseverante meditazione. Quel qualunque favore del pubblico non fu motivato generalmente, che sul coro e sull'atto quinto; e non parve che alcuno trovasse in quella tragedia ciò che io aveva avuto più intenzione di mettervi. Di modo che io ho dovuto finalmente dubitare, che o le mie intenzioni stesse fossero illusioni, o ch' io non avessi saputo menomamente condurle ad effetto. Nè bastavano a rassicurarmi alcuni amici, dei quali io apprezzo altamente il giudizio; perchè la comunicazione giornaliera e la conformità di molte idee toglievano alle loro parole quella specie di autorità, che porta seco un estraneo, nuovo, non provocato nè discusso parere. In questa noiosa ed assiderante incertezza, qual cosa poteva più sorprendermi e rincorarmi, che l'udire la voce del maestro, rilevare ch' egli non aveva credute le mie intenzioni indegne di esser penetrate da lui, e trovare nelle sue pure e splendide parole la formola primitiva dei miei concetti? Questa voce mi anima a proseguire lietamente in questi studi, confermandomi nell' idea che, per compire meno male un'opera d'ingegno, il mezzo migliore è di fermarsi nella viva e tranquilla contemplazione dell' argomento che si tratta, senza tener conto delle norme convenzionali e dei desiderii, per lo più temporanei, della maggior parte dei lettori. Deggio però confessarle che la distinzione dei personaggi in istorici e in ideali è un fallo tutto mio; e che ne fu cagione un attaccamento troppo scrupoloso all' esattezza storica, che mi portò a separare gli uomini della realtà da quelli che io aveva immaginati per rappresentare una classe, un' opinione, un interesse. In un altro lavoro recentemente incominciato 1 io aveva già omessa questa distinzione; e mi compiaccio di aver così anticipatamente obbedito al suo avviso.

Ad uomo avvezzo all' ammirazione d'Europa io non ripeterò le lodi, che da tanto tempo gli risuonano all'orec

1 L'Adelchi.

chio; bensì approfitterò dell' occasione, che mi è data, di presentargli gli augurii più vivi e più sinceri di ogni prosperità. Piacciale di gradire l'attestato del profondo ossequio, col quale ho l'onore di rassegnarmele....

A Marco Coen,1 a Venezia.

Milano, 2 giugno 1832.

C'è una letteratura, che ha per iscopo un genere speciale di componimenti, detti d'immaginazione; e dà, o piuttosto cerca, le regole per farli, e la ragione del giudicarli. Questa letteratura, non ch'io l'abbia posseduta mai, ma vo, ogni giorno, parte dimenticando, parte discredendo quel poco, che m'era paruto saperne. Nel che, m'abbia io la ragione o il torto, la conseguenza, per ciò che fa al caso, è la medesima; che nessuno cioè è meno atto di me a farsi maestro d'una tale letteratura. Ce ne ha un'altra, che è l'arte di dire, cioè di pensare bene, di rinvenire col mezzo del linguaggio ciò che è di più vero, di più efficace, di più aggradevole in ogni soggetto, che si prenda a considerare, o a trattare. Ma questa letteratura non è una scienza, che stia da sè; non ha una materia sua propria; s'apprende per via delle cose, col mezzo d'ogni studio utile e positivo, d'ogni buon esercizio dell'intelletto; s'apprende per la lettura delle opere dei grandi ingegni, e certo anche di quelle che più specialmente si chiamano opere di bella letteratura; ma non di quelle sole, nè di quelle principalmente; chè, oltre l'esservi poco vero da imparare, ci si può imparar troppo del falso, avendo troppo spesso quelle opere, come una fisica, così una morale tutta loro, con certe idee intorno al merito e al valor delle cose, intorno al bello, all'utile, al grande; idee, che non hanno in sè più verità, che le immagini dei centauri e degli ippogrifi, ma che, pur troppo, non si scoprono, così a prima giunta, fole, come queste. E mentre un ingegno rafforzato da altri studi più sodi, e soprattutto occupato in qualche professione, che lo costringa a badare alle relazioni reali delle idee colle cose, impara da quelle opere quello,

Questo veneziano, figlio di un ricco banchiere israelita, aveva scritto sotto finto nome al Manzoni, movendogli de' quesiti che risultano da que sta lettera responsiva.

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