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Quello ancora una gente risorta
Potrà scindere in volghi spregiati,
E a ritroso degli anni e dei fati,
Risospingerla ai prischi dolor:
Una gente che libera tutta,

O fia serva tra l' Alpe ed il mare;
Una d'arme, di lingua, d'altare,
Di memorie, di sangue e di cor.
Con quel volto sfidato e dimesso,
Con quel guardo atterrato ed incerto,
Con che stassi un mendico sofferto
Per mercede nel suolo stranier,

Star doveva in sua terra il Lombardo;
L'altrui voglia era legge per lui;

Il suo fato, un segreto d' altrui;

La sua parte, servire e tacer.

O stranieri, nel proprio retaggio

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Torna Italia, e il suo suolo riprende;
O stranieri, strappate le tende

Da una terra che madre non v'è.

Non vedete che tutta si scote,
Dal Cenisio alla balza di Scilla?
Non sentite che infida vacilla

Sotto il peso de' barbari piè ?

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O stranieri! sui vostri stendardi

Sta l'obbrobrio di un giuro tradito;
Un giudizio da voi proferito

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V'accompagna all' iniqua tenzon;

Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;

Ogni gente sia libera, e pèra

Della spada l' iniqua ragion.

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In questi

V. 33-40. Sfidato (voce poetica). Disanimato, Sfiduciato. versi ricomparisce il pensiero che il poeta aveva espresso nel Frammento di canzone sul Proclama di Rimini: Essa [l'Italia] in disparte e posto al labbro il dito, Dovea il fato aspettar dal suo nemico, Come siede il mendico - Alla porta del ricco in sulla via.. Con le parole l'altrui voglia, un segreto d'altrui, designa il dominio dell'Austria dispotico ed esercitato misteriosamente. V. 49-56. Il giuro tradito e il giudizio proferito, sono espressi negli ultimi tre versi della strofa, e si riferiscono alle solenni promesse d'indipendenza nazionale fatte nel 1814 ingannevolmente dagli Austriaci agl'Ita liani per distoglierli da Napoleone e dalla Francia. Col vocativo O stranieri, intende non solo gli Austriaci, ma i Tedeschi generalmente; non solo per sineddoche (traslato comunissimo nell'uso, e in questo caso adoperato abitualmente dal popolo italiano, che gli Austriaci dominatori d'Italia soleva chiamar Tedeschi), ma perchè effettivamente quella domina

Se la terra ove oppressi gemeste
Preme i corpi de' vostri oppressori,
Se la faccia d'estranei signori
Tanto amara vi parve in quei dì;
Chi v' ha detto che sterile, eterno
Saria il lutto dell' itale genti?

Chi v' ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo quel Dio che v' udì?
Sì, quel Dio che nell' onda vermiglia
Chiuse il rio che inseguiva Israele,
Quel che in pugno alla maschia Giaele
Pose il maglio, ed il colpo guidò;
Quel che è Padre di tutte le genti,
Che non disse al Germano giammai:
Va, raccogli ove arato non hai;
Spiega l' ugne; l'Italia ti do.
Cara Italia! dovunque il dolente

Grido uscì del tuo lungo servaggio;

Dove ancor dell' umano lignaggio

Ogni speme deserta non è;
Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel segreto matura,
Dove ha lacrime un' alta sventura,
Non c'è cor che non batta per te.
Quante volte sull' Alpi spiasti
L'apparir d'un amico stendardo!
Quante volte intendesti lo sguardo
Ne' deserti del duplice mar!

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zione aveva l'approvazione generale della Germania, compresi anche i suoi democratici del 1848. Giustamente perciò il poeta ricorda ai Tedeschi tutti l'oppressione che avevano patita dai Francesi e da Napoleone, la riscossa nel 1813 e la vittoria di Lipsia, come fatti che condannavano quella susseguente dominazione in Italia; e allo stesso fine mira la dedica di quest'Ode al loro poeta patriottico.

V. 65-68. Questi ricordi del passaggio del Mar Rosso con l'annegamento di Faraone, e del chiodo di Giaele, sono cose troppo strane dalle opinioni e dal concetto stesso che i credenti oggidì hanno di Dio. Senza di essi (coi quali resterebbe anche soppresso quello snervante Sì) il concetto dell'intervento della Divinità si terrebbe alla sua massima altezza, e l'ode continuerebbe senza intoppo la sua rapida corsa. Ma dacchè l'autore aveva già espressi questi concetti medesimi nel Frammento di canzone per il Proclama di Rimini, bisogna dire ch'erano nella sua mente ben maturati e ben fissi ! Ad ogni modo egli risorge subito negli ultimi due versi della strofa con la fiera sublimità dell'immagine e dell'espressione.

V. 84. Chiama a proposito deserti le distese [æquora] dei due mari Mediterraneo e Adriatico, perchè l'Italia intendendovi lo sguardo non vi scopriva alcun naviglio che venisse a liberarla dalla tirannia straniera.

Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
Stretti intorno a' tuoi santi colori,
Forti, armati de' propri dolori,
I tuoi figli son sorti a pugnar.
Oggi, o forti, sui volti baleni

Il furor delle menti segrete:
Per l'Italia si pugna, vincete !
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
Al convito de' popoli assisa,

O più serva, più vil, più derisa
Sotto l'orrida verga starà.
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui

Che da lunge, dal labbro d'altrui,
Come un uomo straniero, le udrà!
Che a' suoi figli narrandole un giorno
Dovrà dir sospirando: Io non c'era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata in quel dì non avrà.

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V. 87. Armati de' propri dolori. Fiera e concisa locuzione in cui si condensano i versi di Dante: Se mala signoria che sempre accora - Li popoli soggetti non avesse - Mosso Palermo a gridar: Mora, mora (Par., VIIÎ, 73).

V. 90. Il furore [qui usato in buon senso], il quale prima del giorno della riscossa stava compresso ed occulto negli animi dei patriotti.

V. 96. L'orrida verga non è detto solo metaforicamente per significare un governo crudele e sanguinario, ma veracemente pur troppo; perchè i Tedeschi su i corpi degl'infelici Italiani barbaramente adoperavano anche la verga.

V. 97-104. Questa strofa, aggiunta dal poeta nel 1848, dopo le cinque gloriose giornate di Milano, compie a maraviglia l'ideale dell'ode in corrispondenza dei fatti; poichè, riguardando il marzo del 1848 come riscossa del marzo 1821, egli, testimonio di ambedue gli avvenimenti, ravvicinandoli insieme, converte, in rispondenza ad essi, il presagio lugubre, posto a conclusione della strofa precedente, nell' inno della vittoria.

V. 102. Io non c'era. Così l'edizione Opere varie ec. del 1870 (nota 2 a pag. 140), che per verità non è molto corretta. Le due prime edizioni del 1848 (nota 1, ivi) hanno lo non v'era, che a me sembra da preferirsi, perchè vi in questo luogo è più proprio di ci. Tuttavia nel dubbio che la mutazione sia dell'autore stesso, ho lasciata nel testo la lezione che apparisce ultima di lui.

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Il poeta scrisse quest'ode a Brusuglio in tre giorni, mettendovisi appena ricevuta la notizia della morte di Napoleone (17, 18, 19 maggio 1821), ch'egli in una lettera a Cesare Cantù chiama « i tre giorni di convulsione. » L'autografo dell'ode, prezioso veramente, perchè dimostra il procedimento graduale dell'autore nella composizione di essa fino alla sua ultima redazione che si ha nella stampa, è pubblicato nel libro citato a pag. 137 di questo vol., nota 2.

V. 1-6. Il pronome Ei, invece del nome, qui è del tutto naturale; massime se ci rapportiamo, come è dovere, al tempo della composizione dell'ode, in cui per tutto il mondo civile all'annunzio della morte giganteggiò nelle menti la figura ancor viva dell'uomo più grande di quell'età; il cui nome era nelle menti di tutti; e perciò a indicarlo bastava il pronome, che per antonomasia deve significare Napoleone soltanto. Anche Silvio Pellico, a quell'annunzio, scrisse nello Spielberg una canzone che, per singolare conformità, comincia Quel grande fu, espressione però ben più piccola che il semplice e sublime Ei fu; come del resto quella canzone è tutta inferiore, e quanto!, all'ode manzoniana. Nè è punto biasimevole, ma anzi bellissima, la grandiosa immagine della terra che all'annunzio della morte dell' et oe resta, come il suo cadavere, immobile e muta; bensì è da riprovare in qualche parte di questi primi quattro versi il soverchio delle parole (in mobile, dato il mortal sospiro, immemore, orba di tanto spiro), che ripetonc a un dipresso il concetto medesimo. Siccome, è particella comparativa in relazione di Così nel v. 5. — Nunzio è il Nuntius latino, sostantivo di persona e di cosa, che significa ora Annunziatore ora Annunzio. Nell'uso comune italiano ha solo il primo significato, ma il poeta gli attribuisce qui, alla latina, il secondo.

V. 10. Orma, Passc. Vedi in questo vol., nota 23-32 a pag. 205. V. 13-17. Solio. La nismo usato invece di Soglio, per far meglio sentire la sdrucciola. Sonito, latinismo anch'esso, non v'è posto unicamente per fare sdrucciolo il verso, ma anche pel significato; poichè non è mica

Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio

E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio;

E scioglie all' urna un cantico

Che forse non morrà.

Dall' Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;

Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall' uno all' altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri

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lo stesso che Suono, ma significa un suono prolungato, come di fatti fu quello della potenza napoleonica per oltre a una quindicina d'anni. A vece, latinismo per Vicenda, importando essa un alternamento nella mutazione delle cose a cui si riferisce, la qualità di assidua, come notò pure G. B. Niccolini, mal si conviene, e tanto peggio coi tre verbi che vengono appresso. Bene appropriato è però quest' assidua nel v. 75 del Coro per Ermengarda.

V. 25-30. Nei primi due versi di questa strofa sono indicate le guerre d'Italia e d'Egitto, della Spagna e della Germania, nel quinto le ulteriori d'Italia e la spedizione di Russia, nel sesto più specialmente le guerre marittime, combattute nell'Oceano Atlantico e nei mari meridionali e settentrionali d'Europa. Manzanarre, fiume della Spagna che bagna Madrid. Tanai, oggi Don, fiume della Russia che sbocca nel mare d'Azof.

V. 34-36. La costruzione è: Che volle stampare in lui [in Napoleone] orma del creatore suo spirito più vasta [che negli altri uomini]. « Veggo che più vasta orma è espressione viziosa, poichè manca il termine comparativo, ed il senso non è perfettamente chiaro. Si vasta sarebbe più grammaticale, ma sarebbe ancor più lungi dal senso che ho voluto, e non saputo, esprimere. » Così l'autore nella lett. a G. B. Pagani, 15 nov. 1821.

V. 38. D'un gran disegno. La ricostituzione politica e sociale della Francia dopo il cataclisma rivoluzionario, e la fondazione di un vasto dominio; cose ch' egli effettuò, prima console e poi imperatore.

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