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Serve, pensando al regno,

E il giunge, e tiene un premio
Ch'era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria

Maggior dopo il periglio,

La fuga e la vittoria,

La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,

Due volte sull' altar.
Ei si nomò: due secoli

L'un contro l'altro armato
Sommessi a lui si volsero
Come aspettando il fato;
Ei fe' silenzio, ed arbitro
S'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell' ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d'immensa invidia,
E di pietà profonda,
D'inestinguibil odio

E d'indomato amor.

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V. 40. Nella citata lettera l'autore avvertiva che la lezione vera è Serve, non Ferve. Questo Serve risponde alla frase latina, usata anche da Orazio (Arte poet., 167): Inservit honori.

V. 41. Il giunge. Lo consegue, L'ottiene: senso strano dall'uso. Dante adopera il verbo giungere come transitivo, in forma passiva, e in significato, non di Conseguire, Ottenere, ma di Raggiungere (Tu se' giunto: Inf., XXII, 126), che impropriamente oggidì si usa da parecchi scrittori in luogo di quelli.

V. 47, 48. Due volte nella polvere: in rispondenza alla fuga dopo le sconfitte del 1813 e 1814, e del tristo esiglio dopo Waterloo; prima all'isola d'Elba, e poi a Sant'Elena. Due volte sull' altar: in rispondenza alla vittoria e alla reggia; nel tempo anteriore alla prima rilegazione, e quindi nei Cento giorni.

V. 49-51. Ei si nomò. Non si riferisce specificatamente nè al titolo di console, nè, a quello d'imperatore; ma per maniera, qui, nel suo indefinito, molto significativa, a tutto il complesso delle straordinarie imprese militari e civili, ond' egli ebbe subito alta rinomanza per tutto il mondo. Due secoli ec., il secolo decimottavo e il decimonono, che implicano non solo le diverse parti politiche in lotta fra loro, ma, più grandiosamente, le travagliose lotte del genere umano d'allora in tutte le cose civili, religiose, morali.

V. 53. Fe' silenzio. Vuol dire Intimò silenzio; e non già Tacque, come più comunemente in italiano, e sempre in latino: Tum facta silentia tectis (VIRG., En., I, 730).

V. 55, 56. Nella citata lettera l'autore avvertiva che la lezione vera è E sparve, non già Ei sparve. — La breve sponda è Sant'Elena, piccola isola solitaria in mezzo all'Oceano Atlantico meridionale, tra l'Africa e l'America del sud.

Come sul capo al naufrago
L'onda s'avvolve e pesa,
L'onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan
Tal su quell' alma il cumulo
Delle memorie scese!

Oh quante volte ai posteri
Narrar sè stesso imprese,
E sull'eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d'un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L'assalse il sovvenir.

E ripensò le mobili

Tende, e i percossi valli,

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V. 61-66. Gli ultimi quattro versi di questa similitudine, a torto sono censurati come superflui e importuni; quasichè non abbiano rispondenza col soggetto a cui la similitudine si riferisce. La rispondenza v'è, e tanto più efficace, in quanto che la similitudine implica in sè e fa sottintendere nel soggetto a cui si riferisce, l'altro termine di confronto; cioè che Napoleone aveva anch' egli, come il naufrago, tante volte steso lo sguardo (ed è verissimo) su l'immenso Oceano, in attesa, di qualche naviglio liberatore; ed è naturale che dopo la delusione lo sopraffacesse il cumulo delle memorie delle sue imprese e grandezze passate; il che doveva avvenire bene spesso, ma il poeta, che è anche pittore, ha preso un punto solo, formando una situazione concreta. Del resto anche nella Pentecoste (v. 103-112) abbiamo veduto una similitudine di questo genere, essa pure censurata a torto. L'autore nella citata lettera mette per lezione vera (se non v'è errore di stampa) rimote; ma l'autografo ha, e giustamente, remote.

V. 69-72. Si sente l'imitazione di Virgilio, là dove questi parla delle porte del tempio di Apollo a Cuma istoriate da Dedalo, a proposito del tentativo che quegli fece di scolpirvi anche la morte del figlio Icaro: Bis conatus erat casus effingere in auro, - Bis patriæ cecidere manus (En., VI, 32, 33).

V. 78. Il sovvenir. A proposito di questa parola, censurata come francesismo, l'autore scriveva a Cesare Cantù: «È una brutta parola che non va nè in prosa nè in verso.... ma.... non sovvenendomi di meglio, lasciai il sovvenire » (Lett. 160 dell' Epist. citato a nota 3 della pag. 155 di questo vol.). E si aggiunga che questa parola offende anche, e forse più, per la sua brutta assonanza con la precedente. Anche il Leopardi nella prima edizione delle sue Ricordanze, al v. 57, aveva scritto Non torni, e un dolce sovvenir non sorga, ma, sempre castigato e severo, dipoi corresse, sostituendo rimembrar.

V. 79-84. Così pure il Carmagnola. Vedi in questo vol., a pag. 222. I valli sono le trincee e i bastioni; percossi, battuti dalle artiglierie.

E il lampo de' manipoli,
E l'onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
'Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò; ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
E l'avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov'è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola;
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.

V. 81, 82. Vedi in questo vol., a pag. 76, nota 46.

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V. 97. Immortal. Qui è usato sostantivamente. In questo senso i poeti sogliono adoperarlo più comunemente al plurale, dicendo Gli Immortali, per Dei immortali, forma del paganesimo; di cui il Manzoni ha fatta qui un'espressione schiettamente cristiana, intendendo per essa la Fede, nominata subito dopo.

V. 100-108. L'autore in tre lettere, cioè a G. B. Pagani, 15 novembre 1821, al marchese De Montgrand, 29 luglio 1838, agli alunni del Seminario di Trento, 10 maggio 1845, torna a spiegare il disonor del Golgota, dicendo che con questa locuzione ha voluto intender la croce, « la santa ignominia della croce, a imitazione dei detti di san Paolo, Christum crucifixum, gentibus stultitiam, e Improperium Christi; e dopo aver notato che quei detti nel testo dell' Apostolo sono per sè chiari, e portano, a così dire, con sè la loro sublime ironia, confessa che egli, per non aver saputo farli entrare in un verso, nè trovare un'espressione che li spiegasse nettamente, si è esposto alla giusta punizione di non essere inteso dalle persone più intelligenti. — C'è qualche piccola parte di vero in ciò che l'autore nella lettera al Pagani con troppa modestia dice a proposito di quest'ode, ponendo fra le ragioni dello strano incontro » di

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A quest' ora il sapranno. Oh perchè almeno
Lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,
Lor giungeria l'annunzio; ma varcata
L'ora solenne del dolor saria;

E adesso innanzi ella ci sta bisogna
Gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
O sol diffuso! o strepito dell' armi!
O gioia de' perigli! o trombe! o grida
De' combattenti! o mio destrier! tra voi
Era bello il morir. Ma.... ripugnante
Vo dunque incontro al mio destin, forzato,
Siccome un reo, spargendo in sulla via
Voti impotenti e misere querele?

E Marco, anch'ei m'avria tradito! Oh vile
Sospetto! oh dubbio! oh potess' io deporlo

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essa << una certa oscurità viziosa per sè, ma che ha potuto dar luogo a far supporre pensieri alti e reconditi, dove non era che difetto di perspicuità. Questi difetti però sono pochi e lievi, e appena sensibili fra le bellezze moltissime e sfolgoranti per tutta l'ode, nella quale il poeta con le due prime strofe (v. 1-12) pone la solida base di questo monumento colossale, e, delineato in altre due (v. 13-24) sè e il soggetto, con le sei che vengono appresso (v. 25-60) lumeggia tutta l'epopea napoleonica dalla prima discesa in Italia fino a Sant'Elena; con le quattro seguenti (v. 61-84) ci rivela il mondo interno dell' uomo fatale che rivolge nella mente la passata grandezza, e con le ultime quattro (v. 85-108), raddolcendo anche lo stile ed il ritmo, rappresenta l'eroe nell'atto che dalla Fede è levato su e guidato al gaudio eterno, Dov'è silenzio e tenebre La gloria che passò; donde la naturale e altamente lirica apostrofe alla Fede stessa, e per suggello di tutto il sublime dell'ode, in fine, l'immagine di Dio che posa vicino al morente abbandonato dal mondo nei deserti dell'Oceano.

*Il conte di Carmagnola, condannato ingiustamente a morte come traditore dalla repubblica di Venezia, dopo ricevuta nella prigione la terribile notizia, in attesa del supplizio rivolge prima di tutto il pensiero alla moglie e alla figlia (delle quali si fa cenno nella nota * della pag. seguente) e poi alla sua passata grandezza militare.

V. 6-10. Libera e felicissima imitazione dell' apostrofe virgiliana di Enea sopraffatto dalla tempesta: O terque quaterque beati - Quis ante ora patrum Troja sub mœnibus altis - Contigit oppetere! O Danâum fortissime gentis, Tydide, mene iliacis occumbere campis - Non potuisse....? (En, I, 96-09).

Ant.

Matil.

Pria di morir! Ma no: che val di novo
Affacciarsi alla vita, e indietro ancora
Volgere il guardo ove non lice il passo?
E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
Io le provai quest' empie gioie anch'io:
Quel che vagliano or so. Ma rivederle!
Ma i lor gemiti udir! l'ultimo addio
Da quelle voci udir! tra quelle braccia
Ritrovarmi.... e staccarmene per sempre!
Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr' esse
Un guardo di pietà.

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Ant. Così ritorni a noi? Questo è il momento
Bramato tanto ?...

Conte.

O misere, sa il cielo
Che per voi sole ei m' è tremendo. Avvezzo
Io son da lungo a contemplar la morte,
E ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno
Ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
Tôrmelo, è vero? Allor che Dio sui boni
Fa cader la sventura, ei dona ancora
Il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro
Alla sventura or sia. Godiam di questo
Abbracciamento: è un don del cielo anch'esso.
Figlia, tu piangi! e tu, consorte!... Ah! quando
Ti feci mia, sereni i giorni tuoi

Scorreano in pace; io ti chiamai compagna
Del mio tristo destin: questo pensiero

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V. 19. Filippo Maria Visconti, duca di Milano, al cui servizio era stato il Carmagnola molti anni, e poi lo aveva abbandonato per giusto sdegno.

* Antonietta Visconti, parente di Filippo Maria duca di Milano, era stata sposata dal conte di Carmagnola, mentre questi era al servizio del duca suddetto. Essa e Matilde loro figliuola si trovavano a Venezia nel tempo che il Carmagnola fu condannato. Qui il poeta immagina che quelle venissero ad abbracciarlo per l'ultima volta nella prigione, sopraggiungendo dopo che egli aveva fatto il monologo precedente; accompagnate dat Giovanfrancesco Gonzaga uno dei celebri capitani di ventura, che nell' ultima guerra aveva militato per Venezia contro il duca di Milano sotto il comando del Carmagnola, a cui il poeta lo fa amico fedele.

V. 30. Da lungo. Da lungo tempo; ma è locuzione forzata.

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