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Gl'Italiani nel momento della vittoria dei Franchi su i Longobardi.

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Dagli atrii muscosi, dai fòri cadenti,
Dai boschi, dall' arse fucine stridenti,
Dai solchi bagnati di servo sudor,
Un volgo disperso repente si desta;
Intende l'orecchio, solleva la testa
Percosso da novo crescente romor.
Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,
Qual raggio di sole da nuvoli folti,
Traluce de' padri la fiera virtù :

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*Dopo la sconfitta alle Chiuse d'Italia i Longobardi con precipitosa fuga corsero a racchiudersi parte in Pavia con Desiderio e parte a Verona con Adelchi. Ciò è rappresentato nell'Atto terzo della Tragedia. Or qui il poeta immagina che gl'Italiani sottoposti al dominio dei Longobardi, alla vista dei fuggiaschi perseguitati dai vincitori credano di avere scosso il giogo abborrito, e che i nuovi stranieri siano venuti a liberarli; se non che egli toglie loro tale illusione. Su queste idee tessuto il Coro, che può considerarsi come un dialogo, nella prima parte del quale, compresa in cinque strofe, parla il Coro stesso, nella seconda, che comprende le ultime sei, gli risponde il poeta. A proposito di questo Coro l'autore nella lettera 6 marzo 1822 scriveva al Fauriel: «Ho dovuto comporre [per l'Adelchi] due cori lirici, il primo dei quali soprattutto mi è sembrato indispensabile per portar l'attenzione su ciò che vi ha di più serio e di più poetico nel soggetto che ho maltrattato; il che non poteva esplicarsi nè nell'azione nè coi discorsi dei personaggi. » Avendo egli consegnato il manoscritto della Tragedia per la stampa alla censura austriaca in Milano, questa vi fece varî buchi qua e là, nel rattoppamento dei quali l'autore dovette spendere qualche giorno; e alcuni ne fece, come si vedrà più sotto, anche in questo Coro, che fu ristampato integralmente poco dopo la morte del Manzoni, prima in un periodico, e poi nel libro di ANTONIO STOPPANI, I primi anni di Alessandro Manzoni, pagg. 237-240.

V. 1-6. Atrii muscosi. Essendo l'atrio la prima parte anteriore d'una casa signorile, vuol dire il poeta che gli antichi palazzi degl'Italiani son rimasti, ma col chiamarli muscosi, cioè coperti di borraccina, mostra ch'essi allora, spente le antiche famiglie, erano abitati, e tenuti neglettamente, da gente del volgo. Dai fòri cadenti. I fòri al tempo dei Romani erano piazze aventi colonnati coperti con tettoje per l'amministrazione della giustizia; e se ne vedono dei cadenti, cioè mezzi diruti; anc'oggi, specialmente a Roma e a Pompei. Arse fucine stridenti ci ricorda l'oraziano Graves Cyclopum - Vulcanus ardens urit officinas (Od., I, 4), e il virgiliano Cyclopum exesa caminis Antra ætnæa tonant 1.4 striduntque cavernis stricture Chalybum ec. (En., VIII, 418-421). Il novo crescente romor. Questo romore era causato dalla fuga dei Longobardi vinti e dalla caccia che davano a loro i Franchi vincitori. Nei primi cinque versi è rappresentata

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la condizione servile degl'Italiani sotto il dominio dei barbari.

V. 9. De' padri. De' Romani già conquistatori e signori della terra: Rerum dominos gentemque togatam (VIRG., En., I, 282).

Ne' guardi, ne' volti confuso ed incerto
Si mesce e discorda lo spregio sofferto
Col misero orgoglio d' un tempo che fu.
S'aduna voglioso, si sperde tremante,

Per torti sentieri, con passo vagante,
Fra téma e desire, s'avanza e ristà;
E adocchia e rimira scorata e confusa
De' crudi signori la turba diffusa,

Che fugge dai brandi, che sosta non ha.
Ansanti li vede, quai trepide fere,
Irsuti per tema le fulve criniere,
Le note latebre del covo cercar;
E quivi, deposta l'usata minaccia,
Le donne superbe, con pallida faccia,
I figli pensosi pensose guatar.
E sopra i fuggenti, con avido brando,

Quai cani disciolti, correndo, frugando,
Da ritta, da manca, guerrieri venir:
Li vede, e rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,

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V. 12. D'un tempo che fu. Non indica semplicemente Tempo passato, ma tempo in cui avevano avuta una potenza perduta irreparabilmente; come nel virgiliano: Fuimus Troes, fuit Ilium et ingens - Gloria Teucrorum (En., II, 325, 326). Dopo questa seconda strofa ne seguiva nella composizione primitiva quest'altra, che fu quindi soppressa:

E il volgo gravato dal nome latino,

Che un'empia vittoria conquise e tien chino
Sul suo che i trionfi degli avi portò;
Che, in torbida vece, quel gregge predato,
Dall'Erulo avaro nel Goto spietato,

Nel Vinnulo errante dal Greco passò.

V. 17. De'crudi signori. Dei Longobardi.

V. 20, 21. Le fulve criniere. Fulve, cioè tiranti al rossigno; chè tale era il colore delle lunghe capigliature dei Longobardi. Criniera veramente è l'insieme dei crini del leone, del cavallo e simili: nè mai si trova usato per chioma umana. L'adopera qui il Manzoni con modo ardito, ma efficacissimo; in quanto non solo risponde alla similitudine delle trepide fere, ma anzi con quella si compenetra, e ne fa una cosa sola. Così non li dice irti, ma irsuti, voce propria anch'essa più delle fiere che degli uomini; e chiama latebre del covo (nascondigli della tana ferina) i luoghi più riposti della casa [L. Venturi].

V. 27. Guerrieri venir. I Franchi vittoriosi che dánno la caccia ai Longobardi.

V. 31. Qui entrando il poeta, con mirabile visione, a parlare direttamente a quegli Italiani illusi nella speranza di esser liberati per opera dei vincitori dei Longobardi, continua il quadro storico-lirico rappresentando prima il carattere e gl'intenti dei Franchi, in quella spedizione e vittoria,

Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,
Son giunti da lunge, per aspri sentier:
Sospeser le gioie dei prandi festosi,
Assursero in fretta dai blandi riposi,
Chiamati repente da squillo guerrier.
Lasciår nelle sale del tetto natio

Le donne accorate, tornanti all' addio,
A preghi e consigli che il pianto troncò;
Han carca la fronte de' pesti cimieri,
Han poste le selle sui bruni corsieri,
Volaron sul ponte che cupo sonò.
A torme, di terra passarono in terra,
Cantando giulive canzoni di guerra,
Ma i dolci castelli pensando nel cor:
Per valli petrose, per balzi dirotti,
Vegliaron nell' arme le gelide notti,
Membrando i fidati colloqui d'amor.
Gli oscuri perigli di stanze incresciose,
Per greppi senz' orma le corse affannose,
Il rigido impero, le fami durâr:

Si vider le lance calate sui petti,

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A canto agli scudi, rasente agli elmetti
Udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

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l'unione dei vincitori e dei vinti, e la peggior condizione futura dei miseri Italiani. Quei forti sono i Franchi vittoriosi, e dalle parole seguenti si arguisce che il poeta parla della nobiltà feudale che formava nell'esercito la cavalleria.

V. 34. Prandi. Latinismo, in vece di Pranzi, evitato dal poeta come troppo volgare e fors' anco perchè al verso ne sarebbe scemata la gran bellezza del suono. Anche il Tasso (Gerus., VI, 4): A lor nè i prandi mai turbati e rotti ec.

V. 40. Pesti cimieri. I cimieri sono le punte, i pennacchi degli elmi : qui, per sineddoche, gli elmi stessi. Pesti, Ammaccati dai colpi ricevuti nelle battaglie.

V. 42. Cupo sono: o quando fu calato, essendo levatojo, per fare uscir la cavalleria; ovvero, cupo sono sotto le zampe dei cavalli; e forse per l'una cosa e l'altra.

V. 45. I dolci castelli, da essi abbandonati.

V. 49. Le stanze incresciose, sono gli incomodi acquartieramenti durante quella spedizione militare dalla Francia in Italia.

V. 51. Molto propriamente attribuisce qui a Carlo Magno il rigido impero, come nel Cinque Maggio a Napoleone il concitato impero.

V. 52-54. Si videro dirizzati al petto i colpi delle lance nemiche, e sentirono il fischio delle frecce ec. Accenna i pericoli corsi da loro.

V. 55-66. Il poeta, dopo aver descritto nelle quattro precedenti strofe gli stenti, le privazioni e i pericoli a cui i Franchi si erano sottoposti per

D'un volgo straniero por fine al dolor?
Tornate alle vostre superbe ruine,

All' opere imbelli dell' arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
[Atto terzo, sc. IX.]

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la guerra e per la vittoria, dice concludendo: E credete voi che il premio della vittoria a loro promesso debba consistere nel mutare le sorti di un volgo straniero, cioè di voi Italiani, e nel por fine al vostro servaggio? Abbandonate pure la folle speranza; ripiegatevi al servaggio e aspettatevi anzi di peggio, cioè non uno, ma due padroni. Asserzione pienamente conforme, pur troppo! alla dura realtà della storia italiana di quella misera età; poichè, difatti, i Longobardi dopo la patita sconfitta furono lasciati nei loro possedimenti, avendo essi giurato fedeltà a Carlo, che s'intitolò re dei Franchi e dei Longobardi; e così gl'Italiani invece di un popolo padrone n'ebbero due.

V. 55-66. Invece di queste due ultime strofe, la redazione primitiva ne aveva quattro, e sono le seguenti:

E il premio sperato, promesso a quei forti
Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

Por fine ai dolori d'un volgo stranier?
Se il petto dei forti premea simil cura,
Di tanto apparecchio, di tanta pressura,
Di tanto cammino non era mestier.
Son donni pur essi di lurida plebe,
Inerme, pedestre, dannata alle glebe,
Densata nei chiusi di vinte città.

A frangere il giogo che i miseri aggrava,
Un motto dal labbro dei forti bastava,
Ma il labbro de' forti proferto non l'ha.
Tornate alle vostre superbe ruine

All' opere imbelli dell'arse officine,
Ai solchi bagnati di servo sudor.

Stringetevi insieme l'oppresso all'oppresso,
Di vostre speranze parlate sommesso,
Dormite fra i sogni giocondi d'error.
Domani, al destarvi, tornando infelici,
Saprete che il forte sui vinti nemici

I colpi sospese, che un patto troncò,
Che regnano insieme, che sparton le prede,
Si stringon le destre, si danno la fede,

Che il donno, che il servo, che il nome restò.

Nella lettera 10 luglio 1822 al Fauriel il Manzoni confessava di essere stato costretto dalla censura a far mutazioni in questo coro: « Devo dirvi che il primo coro dell' Adelchi non è interamente come io lo aveva fatto; nel mio dialetto si direbbe che è stato strozzato. Ci avrete forse trovata una cert'aria di soffocamento. » Eppure questo strozzamento non par che vi

Ermengarda morente.

CORO. *

Sparsa le trecce morbide
Sull' affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida.
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.

sia; il concetto nell'ultima redazione sostanzialmente rimane tutto, ed essendo più condensato, poichè da diciannove versi, senza contare i cinque identici, si riduce a sette, vien fuori più vigoroso. La prima redazione reca uno sminuzzamento di pensieri snervante, e con le minutaglie interrompe il celere procedimento lirico; alcuni di quei versi eliminati son bellissimi davvero, ma altri più vi fanno l'ufficio di note esplicative. Insomma il Coro, come è stampato, corre più baldanzoso ed è più poetico; e anche il Manzoni dovette venire posteriormente in questo concetto, perchè nelle edizioni susseguenti è restato sempre a quel modo, anche in quella del 1870, quando il poeta, non essendo più impedito a Milano da alcuna censura, facendo la nuova edizione poteva tornar liberamente alla prima redazione.

Ritiratasi Ermengarda, dopo il suo ritorno alla reggia paterna (vedi nota * a pag. 226), nel monastero di San Salvatore a Brescia per cercarvi la pace, dopo breve tempo morì. Il poeta immagina ch'ella muoja poco prima che il marito ripudiatore compia la vittoria e occupi Brescia. L'Atto quarto si apre con una scena dove Ermengarda, consunta già dal malore, esce, sostenuta da due ancelle, all'aria aperta nel giardino, e dialogizzando con la sorella, abbadessa del monastero, all'udire che Carlo ha sposata un' altra cade in delirio; riavutasi, sente avvicinarsi la morte, e ricondotta nel suo letticciuolo dice alle suore: Moriamo in pace. Parlatemi di Dio sento ch' Ei giunge. Qui il poeta trasportato con la fantasia al momento del trapasso di quella donna infelice, immagina che un Coro le parli, figurando di essere parte del Coro egli stesso. Il Coro ha tre parti. La prima di tre strofe (v. 1-18), dove esso, guardando la moribonda, ne dipinge prima l'atteggiamento e l'agonia, e poi la esorta a raccoglier tutti i pensieri in Dio. La seconda di undici strofe (v. 19-84), in cui il Coro, penetrando nell' anima di lei, ne vede le intime lotte, fra le risorgenti immagini de' suoi amori per Carlo e della passata felicità mondana e i sentimenti religiosi, e ne discorre con sè stesso. La terza di sei strofe (v. 85-120), in cui il Coro di nuovo rivolge la esortatrice parola alla morente, la richiama a Dio, la assicura della tranquillità della tomba nella terra degli oppressi, e ne accompagna con pietosi detti il sospiro estremo.

V. 1-6. Sparsa ec. Imita nell'immagine e nella sintassi il verso virgiliano: Et circum, Iliades crinem de more solutæ (En., III, 65). — Lenta le palme. Costruzione latina anche questa: Con le palme lente, cioè mollemente abbandonate. Lenta in questo senso è tutto latino e virgiliano nei versi ove è descritta la morente Camilla: Tum frigida toto - Paullatim exsolvit se corpore, lentaque colla - Et captum leto posuit caput, arma relinquens, - Vi taque cum gemitu fugit indignata sub umbras (En., XI, 828-831). Ma dell'aspro sentimento dell'ultimo verso nella cristiana Ermengarda non c'è neppur

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