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e caro signor Orlandini, io confesso che il meglio mi sembra che non si stampino punto. - Qualora poi le premesse assolutamente di farne una tollerabile pubblicazione, io le chiedo in grazia quanto segue

Dunque, mio caro signor Orlandini, le ho spiegato tutto l'animo mio. O non pubblicare quelle mie quindici lettere, o sopprimerci esattamente tutto ciò che le ho indicato. Confido nella sua cortesia, e sono con vera stima il suo affezionatissimo Silvio.

[DALLE MEMORIE] LE MIE PRIGIONI.
[1831-novembre 1832.]

Il primo giorno della prigionia.

Il venerdì 13 ottobre 1820 fui arrestato a Milano, e condotto a Santa Margherita. Erano le tre pomeridiane. Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno e per altri ancora. Ma di ciò non dirò nulla. Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella, e dignitosamente risoluto di tenerle broncio, lascio la politica ov'ella sta, e parlo d'altro.

Alle nove della sera di quel povero venerdì l'attuario mi consegnò al custode, e questi, condottomi nella stanza a me destinata, si fece da me rimettere con gentile invito, per restituirmeli a tempo debito, orologio, denaro e ogni altra cosa ch'io avessi in tasca, e m'augurò rispettosamente la buona notte.

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Fermatevi, caro voi, gli dissi: oggi non ho pranzato; fatemi portare qualche cosa.

- Subito, la locanda è qui vicina; sentirà, signore, che buon vino!

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A questa risposta, il signor Angiolino mi guardò spaventato, e sperando ch'io scherzassi. I custodi di carceri che tengono bettola inorridiscono d'un prigioniero astemio.

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Non ne bevo, davvero.

M'incresce per lei; patirà al doppio la solitudine.... E vedendo ch'io non mutava proposito, uscì; ed in meno di mezz' ora ebbi il pranzo. Mangiai pochi bocconi, tracannai un bicchier d'acqua, e fui lasciato solo.

La stanza era a pian terreno, e metteva sul cortile. Carceri di qua, carceri di là, carceri di sopra, carceri dirim

petto. M' appoggiai alla finestra, e stetti qualche tempo ad ascoltare l'andare e venire de' carcerieri, ed il frenetico canto di parecchi de' rinchiusi.

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Pensava: Un secolo fa, questo era un monastero: avrebbero mai le sante e penitenti vergini, che lo abitavano, immaginato che le loro celle sonerebbero oggi, non più di femminei gemiti e d'inni divoti, ma di bestemmie e di canzoni invereconde, e che conterrebbero uomini d'ogni fatta, e per lo più destinati agli ergastoli o alle forche? E fra un secolo, chi respirerà in queste celle? Oh fugacità del tempo! oh mobilità perpetua delle cose! Può chi vi considera affliggersi, se fortuna cessò di sorridergli, se vien sepolto in prigione, se gli si minaccia il patibolo? Jeri, io era ung de' più felici mortali del mondo: oggi non ho più alcuna delle dolcezze che confortavano la mia vita; non più libertà, non più consorzio d'amici, non più speranze! No; il lusingarsi sarebbe follía. Di qui non uscirò se non per essere gettato ne' più orribili covili, o consegnato al carnefice! Ebbene, il giorno dopo la mia morte, sarà come s'io fossi spirato in un palazzo, e portato alla sepoltura co' più grandi onori.

Così il riflettere alla fugacità del tempo, mi invigoriva l'animo. Ma mi ricorsero alla mente il padre, la madre, due fratelli, due sorelle, un' altra famiglia1 ch'io amava quasi fosse la mia; ed i ragionamenti filosofici nulla più valsero. M' intenerii, e piansi come un fanciullo.

[Capo I.]

Amputazione della gamba a Piero Maroncelli.

Era venuto al mio povero Maroncelli un tumore al ginocchio sinistro. In principio il dolore era mite, e·lo costringea soltanto a zoppicare. Poi stentava a trascinare i ferri, e di rado usciva a passeggio. Un mattino d'autunno, gli piacque d'uscir meco per respirare un poco di aria: v'era già neve; ed in un fatale momento ch' io nol sosteneva inciampo e cadde. La percossa fece immantinente divenire acuto il dolore del ginocchio. Lo portammo sul suo letto, ei non era più in grado di reggersi. Quando il medico lo vide, si decise finalmente a fargli levare i ferri. Il tumore peggiorò di giorno in giorno, e divenne enorme e sempre

1 Il conte Luigi Porro e i suoi figli.

più doloroso. Tali erano i martirî del povero infermo, che non poteva aver requie nè in letto nè fuor di letto.

Quando gli era necessità muoversi, alzarsi, porsi a giacere, io dovea prendere colla maggior delicatezza possibile la gamba malata, e trasportarla lentissimamente nella guisa che occorreva. Talvolta per fare il più picciolo passaggio da una posizione all' altra, ci volevano quarti d'ora di spasimo.

Sanguisughe, fontanelle, pietre caustiche, fomenti ora asciutti or umidi, tutto fu tentato dal medico. Erano accrescimenti di strazio, e niente più. Dopo i bruciamenti colle pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era tutto piaghe; ma non mai diminuiva, non mai lo sfogo delle piaghe recava alcun lenimento al dolore.

Maroncelli1 era mille volte più infelice di me; nondimeno, oh quanto io pativa con lui! Le cure d' infermiere m'erano dolci, perchè usate a sì degno amico. Ma, vederlo così deperire, fra sì lunghi atroci tormenti, e non potergli recar salute! e presagire che quel ginocchio non sarebbe mai più risanato e scorgere che l'infermo tenea più verisimile la morte che la guarigione! e doverlo continuamente ammirare pel suo coraggio e per la sua serenità! ah, ciò m'angosciava in modo indicibile!

In quel deplorabile stato, ei poetava ancora, ei cantava, ei discorreva; ei tutto facea per illudermi, per nascondermi una parte de' suoi mali. Non potea più digerire, nè dormire; dimagrava spaventosamente: andava frequentemente in deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti, raccoglieva la sua vi talità e faceva animo a me.

Ciò ch'egli pati per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne il protomedico, approvò tutto quello che il medico avea tentato, e, senza pronunciare la sua opinione su l'infermità e su ciò che restasse a fare, se n' andò.

Un momento appresso, viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: Il protomedico non s'è avventurato di spie. garsi qui in sua presenza; temeva ch'ella non avesse la forza d'udirsi annunziare una dura necessità. Io l'ho assicurato che a lei non manca il coraggio.

-Spero, disse Maroncelli, d'averne dato qualche prova, in soffrire senza urli questi strazi. Mi si proporrebbe mai ?...

In questo vol., pag. 34. Sull'uso dell'articolo.

-Si, signore, l'amputazione. Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, esita a consigliarla. In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l' amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo ?...

-Di morire? E non morrei in breve egualmente, se non si mette termine a questo male?

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Dunque faremo subito relazione a Vienna d'ogni cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla....

Che? ci vuole un permesso?

Sì, signore.

Di lì ad otto giorni l'aspettato consentimento giunse. Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch' io lo seguissi.

- Potrei spirare sotto l'operazione, diss' egli; che io mi trovi almeno fra le braccia dell' amico.

La mia compagnia gli fu conceduta.

L'abate Wrba, nostro confessore (succeduto a Paulowich), venne ad amministrare i sacramenti all' infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, e non comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.

I chirurgi vennero alfine: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli, quando occorrevano operazioni, aveva il diritto di farle di sua mano e non volea cederne l'onore ad altri. L'altro, era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal governatore per assistere all'operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli stesso, ma gli convenne contentarsi di vegliare all'esecuzione.

Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò, tutto intorno, la profondità d'un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo si segò l'osso.

Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un'occhiata di compassione, poi, vôltosi al chirurgo operatore, gli disse:

-

- Ella m'ha liberato d'un nemico, e non ho modo di rimunerarnela. —

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V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa.

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Ti prego di portarmi quella rosa, mi disse.

Gliela portai. Ed ei l' offerse al vecchio chirurgo, dicendogli: Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine.

Quegli prese la rosa, e pianse.

[Parte del Capo LXXXVI, e Capo LXXXVII.]

[DAL DISCORSO AD UN GIOVANE]

DEI DOVERI DEGLI UOMINI.

Gentilezza.

Con tutti coloro coi quali t' occorre trattare usa gentilezza. Essa dettandoti maniere amorevoli, ti dispone veramente ad amare. Chi s'atteggia burbero, sospettoso, sprezzante, dispone sè a malevoli sentimenti. La scortesia produce quindi due gravi mali: quello di guastar l'animo a colui che l'esprime, e quello d'irritare od affliggere il prossimo.

Ma non istudiarti soltanto d'esser gentile di maniere : procura che la gentilezza sia in tutte le tue immaginazioni, in tutte le tue volontà, in tutti gli affetti tuoi.

L'uomo che non bada a liberarsi la mente dalle idee ignobili, e spesso le accoglie, viene non di rado trascinato da esse ad azioni biasime voli.

S'odono uomini anche di non vile condizione usare scherzi grossolani, e tener linguaggio inverecondo. Non imitarli. Il tuo linguaggio non abbia ricercata eleganza, ma sia puro d'ogni brutta volgarità, d'ognuna di quelle goffe esclamazioni con che gl'ineducati vanno intercalando il lor favellare, d'ognuno di que' motteggi scurrili con che suolsi da troppi offendere i costumi.

Ma la bellezza del favellare devi cominciare fin da giovine a proportela. Chi non la possiede prima de' venticinqu'anni, non l'acquista più. Non ricercata eleganza, te lo ripeto, ma parole oneste, elevate, portanti negli altri dolce allegria, consolazione, benevolenza, desiderio di virtù.

Procaccia pure che la tua favella sia grata per la buona scelta delle espressioni e per l'opportuna modulazione della voce. Chi parla amabilmente alletta quelli che l'ascoltano, e quindi, allorchè tratterassi di persuaderli al bene o rimuoverli dal male, avrà più potenza su loro. Siamo obbligati di perfezionare tutti gli stromenti che Dio ci dà per

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