Sayfadaki görseller
PDF
ePub

-

XX. Da qualche fautore del Veltro-Papa ho inteso recare in campo questo argomento come forte obbiezione a chi propugna il Veltro-Imperatore o altra persona: Se Dante, provenienti dalla Lupa, lamenta tanti danni morali, che allagavano il mondo, e se a toglierli di mezzo invoca il Veltro, il Veltro non sarà che un Papa, per la ragione che solo il Papa è depositario e custode della morale nel mondo. Ecco; l' obbiezioue non è grave, per questo: quale via impediva a Dante la Lupa? quella del dilettoso monte; sta bene; ma il dilettoso monte quale delle due felicità raffigura, la temporale o l'eterna? se raffigurasse l'eterna, non trovereste una forte dissonanza nel rimprovero, che Virgilio muove al Poeta di non salire quel monte (Inf., 1.), Virgilio simbolo dell' umana Ragione? Virgilio che poscia, della felicità eterna parlando, lascia in piena balia il suo alun no d'andarvi o no (ivi, 121)? Virgilio non poteva altro intendere all' infuori della felicità temporale o civile, per il fatto che s' io credo d'aver mostrato che il monte dilettoso ha identico significato a quello del Purgatorio, sulla cui vetta v' ha il Paradiso terrestre, e se nel Paradiso terrestre Dante raffigura la felicità della vita presente, della felicità eterna non è qui da parlare. Ora, alle due Autorità poste da Dio a vegliare sull' umanità Dante ha prescritto un' ambito determinatissimo; in guisa che l' una non può invadere, senza danno di tutti e senza contravvenire all'ordinamento divino, il campo dell' altra. Ora, se Dante ha detto che allo Imperadore tanto quanto le nostre operazioni si stendono, siamo soggetti (Conv., iv, 9), è chiaro che il Direttivo stabilito da Dio per tener libera d'intoppi all'umanità la via del monte dilettoso, non può essere che l' Imperatore: e di qui l'intima ragione della formazione delle Leggi; ma le Leggi, che sono freno agli uomini perchè non trasvadano (Purg., xv1, 94), le può sol fare l'Imperatore, e a lui solo spetta d'invigilarne l'esatta esecuzione. E Dante in questo concetto, espresso nelle parole testè citate dal Convito, si trova in buona compagnia, dacchè il suo buono fra Tommaso d' Aquino (Conv., IV. 30) gli insegnò: Gli atti di tutte le virtù appartengono alla Giustizia legale, in quanto essa gli ordina al bene comune, (Somm. Th., I II, 61, 5; II II, 58, 5; 102, 1).

XXI. Come auterevolissimo rincalzo a quanto mi sono ingegnato di venire sin qui sponendo mi piace di riferire questo tratto

del Bartoli (1): "Confutare tutte queste opinioni sarebbe cosa lunghissima, noiosissima ed anche inutilissima. A me basterà fare qualche osservazione generale. E questa prima di ogni altra: come avrebbe Dante, nel 1300, potuto dire: e sua nazion sarà, se il Veltro fosse già nato? Ciò fu già notato dal Tommaseo, e nessuno ch'io sappia, ha risposto alla grave obiezione ( il che pero non tolse che il Tommaseo, quanto alieno dall' accettare Uguccione; non inclinasse a vedere nel Veltro Cangrande, benchè nato già da nove anni -): se il Veltro era ancora da nascere, noi non possiamo credere che esso rappresenti una persona determinata, poichè certo non vogliamo attribuire a Dante lo spirito profetico. Un'altra importante osservazione è quella già fatta dal Pepe, e ripresa poi dal Del Lungo. Il quale, esaminati i versi che al Veltro si riferiscono, giustamente domanda se non sia questo il linguaggio, di chi parla di cosa non solamente futura, ma lontanamente futura. Se, egli dice, il Veltro era già nato, e prossima perciò di pochi anni la morte della Lupa per opera sua, in che modo gli animali a cui questa si ammogliava potevano essere ancora più dei molti coi quali si an dava ammogliando, dal remoto tempo in che essa era sbucata dall' Inferno, fino a quell'anno 1300? Questa difficoltà che basta a distruggere le interpretazioni per Uguccione e per lo Scaligero, non è evitata nemmeno da coloro, i quali, ponendo la mira a Benedetto XI, dicono che la predizione fosse da Dante scritta in fatto prima della esaltazione di lui al pontificato (1303), e suggeritagli, com'augurio, dalle singolari virtù del buon trivigiano. Lasciamo stare la poca probabilità di tale divinazione, e che a Benedetto, morto l'anno 1304, non serbi nel suo Paradiso quel seggio che ad Arrigo VII predestinava con si splendida apoteosi. Ma concedendo che Dante nel predire il pontificato del virtuoso domenicano, non isperasse tal fortuna della Chiesa e d'Italia che molti anni più tardi di quel che poi fu in fatto, questi anni non potranno a ogni modo, poichè rinchiusi entro i limiti della vita di un uomo, esser tanti da giustificare la frase acutamente dal Pepe notata, trascurata dal Tommaseo e dal Troya "Molti sono gli animali a cui s'ammoglia, E più saranuo ancora. Gravissima ancora si presenta la difficoltà pei versi:

(1) Stor. Lett., VI, I, pagg. 210-11.

Questi la caccerà per ogni villa,

Finché l'avrà rimessa nell' Inferno.

Quale uomo poteva Dante sperare capace di così grande impresa, quella di liberare il mondo dall' Avarizia? Qui non si parla dell'Italia sola. È opera di riforma universale quella che dovrà compiere il Veltro; il Veltro, che non ciberà terra nè peltro, che ‹ non agognerà, come ben dice il Tommaseo, nè ad oro nè a dominio. » Poteva mai esser questi o Cane o Uguccione, o un altro qualunque capitano rapace di que' tempi?

[ocr errors]

Riferiti poscia i versi del Purgatorio (XX, 10-15), da me allegati più addietro (§. II.), l'illustre storico soggiunge: « Quando verrà il Veltro che rimetterà nell' Inferno l'antica lupa? Dante dunque non sapeva quando sarebbe venuto colui che avrebbe liberata la terra dall' avarizia. Egli si volge a domandarlo al cielo, quasi come persona che dubiti possa mai tale grande impresa essere da un uomo compita. La profezia del Canto primo dell'inferno si trasmuta qui in una esclamazione che pare di disinganno. E si notino bene i versi:

O ciel, nel cui girar par che si creda

Le condizion di quaggiù tramutarsi.

Non si direbbe che essi diano ragione ai vecchi commentatori, i quali parlavano dell' influenza degli astri?

[ocr errors]

APPENDICE V.

IL PAPATO E LIMPERO

E LORO DIVINA PREPARAZIONE

PARTE PRIMA

I. Dante prende la questione dall' alto. Il peccato d'Adamo depravò la natura umana (Mon., I, 12; Par., VII, 25), e nelle menti invalse la cecità e il disordine; che se quella colpa non fosse stata commessa, ognuno avrebbe scorto di per sè il proprio dovere, e senza ostacoli e impedimenti di sorta lo avrebbe eseguito (Purg., xxx, 1 e segg.). Ma non per questo cessava nell' uomo la sua vocazione al conseguimento di una duplice felicità, la temporale cioè e l'eterna, giusta che l'uomo è corruttibile ed incorruttibile (Vulg. El., III, 2; Mon., 111, 15; Conv., 11, 5; IV, 17), e giusta la duplice operazione rispetto alle Virtù morali e teologali. Ecco le sue parole (Mon., 111., 15): "Sicut inter omnia entia solus (homo) incorruptibilitatem et corruptibilitatem participat, sic solus inter omnia entia, in duo ultima ordinatur; quorum alterum sit finis ejus, prout corruptibilis; alterum vero, prout incorruptibilis. Duos igitur fines Providentia illa inenarrabilis "homini proposuit intendendos, beatitudinem scilicet hujus “vitae, quae in operatione propriae virtutis consistit, et per terrestrem Paradisum figuratur; et beatitudinem vitae aeternae, 66 quae consistit in fruitione divini Aspectus; ad quam virtus pro

[ocr errors]

[ocr errors]
[ocr errors]

« ÖncekiDevam »