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Trentine, che separano l'Italia dalla Germania; e per di più la Brenta non nasce da alcun monte, bensì in perfetta pianura, traendo origine dalle acque. che escono dai laghi di Levico e di Caldonazzo. L'Ottimo scrive: Il fiume della Brenta nasce dalle acque che discendono dalle montagne di Chiarentana; il qual fiume molte volte cresce sì, che offenderebbe quasi mezzo il contado di Padova, quando le nevi di Chiarentana si disfanno per lo caldo della state, che si convertono in acqua, se non fossono li detti argini; ed è chiaro che il chiosatore, usando il plurale montagne, intende Chiarent ana non già per un monte (1), ma pur una regione, cioè intende proprio la Carintia, che è la Chiarentana de' nostri antichi scrittori, come abbiamo tante volte nel Villani, in Fazio degli Uberti è in altri ancora; onde l'Ot timo, alla men peggio, intenderebbe che la Carintia abbracciasse anche il moderno Trentino; ciò fa bene al caso del signor Demb scher, del quale toccheremo più innanzi.

Il Lami, pur intendendo la Carintia, ma lasciandola stare dove è, e per conseguente escludendo ch' essa abbracciasse mai il Trentino, s'ingegnò, poco dal più al meno, di spiegare così: « Quando la Carinzia sente il maggior caldo, le nevi del Trentino (essendo quelle montagne troppo più basse di quelle della Carinzia) sonsi già sgelate; onde i Padovani, per fare i ripari lungo la Brenta, non aspettano che la Carinzia si spogli di neve, ben sapendo che assai prima il Brenta cresce per lo sgelarsi delle nevi, che danno incremento a quel fiume ». Lo Scarabelli chiamò felice una tale spiegazione, e forse sarà tale; però non si potrà negare che, se pure è ingegnosa, non sia anche sforzata.

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Ma il bello si è, che, come in altre occasioni, sta si volle abusare financo della geografia ad intento politico. Non sono molti anni che i Sette Comuni Vicentini (mettiamo pure che l'origine di quegli abitanti sia Cimbra, e il cimbro in alcuni vi si parla tuttavia) si videro onorati di molti fascicoli a stampa, venuti per le poste dalla Germania, inneggianti alla comu. nanza di origine col popolo tedesco, e vi si faceva un caldo appello a que' miei buoni compatriotti, perchè tenessero alto il vessil

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(1) Invece parmi notabile l'espressione del Bargigi: " Chiarentana, montagna così nominata. Il Talice (e potrebbe essere che Caritina fosse errore d'amanuense in luogo di Carinthia): Brenta nascitur in partibus ubi dicitur Caritina, vulgariter Chiarentann.

lo della loro schiatta, stendessero la mano ai loro fratelli del Nord, con melate parole, per quanto rettoricamente velate, invitandoli a fare di quei paesi come una succursale della Tedescheria! A che intento quell' appello, dove mirasse quel giuoco, chi l'abbia mosso, non so; ma il fatto è fatto; e serve benissimo a spiegare un altro fatto, rispetto alla Chiarentana di Dante. Se il principe di Metternicch, il famoso ministro Austriaco, concesse all'Italia almeno l'onore di essere un' espressione geografica, bisognava di certo che ci fosse qualcuno più Mitternicch ancora, che s'ingegnasse, se non di togliere in tutto, almeno di ristringere la generosa concessione; e questi fu un signor Dembscher (il suono del cognome sciega bene il perchè di tanto amore alla geografia dantesca), il quale nel 1843, nella Gazzetta di Venezia occupandosi della Chiarentana di Dante, fece sforzi da Ercole a voler dimostrare non solo che la Chiarentana altro non era che la Carintia, ma che la Carintia occupava un tempo il Tirolo (e già s' intende, i Tedeschi, o molti di essi, nella voce Tirolo vogliono comprendere anche il Trentino, che, geograficamente, col Tirolo non ci ha nulla a che fare), e stendeva fino a Verona. E come ultimo prodotto de' suoi studi il signor Demscher proponeya senz'altro che i geografi (e i Dantisti, per conseguente, a quel passo) spiegassero: CHIARENTANA: Regione abitata dai Carantani o Carintii o Carinzii, di cui faceva parte l'odierna Carintia, il Tirolo ecc. > (il Tirolo venendo, come s'è detto, fino a Verona !). In quanto ai confini del Tirolo vedremo or ora che Dante stesso poteva insegnare al signor Dembscher dove erano davvero.

Il Todeschini (1) osservò, che il celevre ab. Gennari, Padovano, trasse da documenti dell' undecimo secolo, che nei monti dell'alto Vicentino (sono per l'appunto i Sette Comuni, che accennai più sopra) e del Trentino, vicini al Brenta, visse un tempo un popolo chiamato de' Clarentani; onde la Chiarentana di Dante vuolsi intendere non per Carinzia (come significa nella lingua dei Trecentisti), ma per l'antica fede di questo popolo. La spiegazione è sottile; ma benchè s'appoggi a un documento, è appunto la sua troppa sottigliezza che mette in dubbio; nè si sa che Dante seppe l'esistenza di quel popolo, al quale accenna il documento allegato dal Gennari.

(1) Scritti su Dante, II, 363.

Ad ogni modo, della Chiarentana di Dante s'occuparono uomini dotti, come puossi vedere nel Manuale Dantesco del Ferrazzi (1); ma nessuno con tanto ardore e, credo anche, con si buona fortuna, quanto il trentino prof. Lunelli, il quale dimostrò che nel basso Trentino, ad oriente del Lago di Levico, che ne bagna il piede, esiste una montagna, che dagli abitanti è detta tuttavia Canzana o Carenzana, la quale si protende acuta sin quasi al principio nord dello stesso lago, montagna che spetta ai comuni d' Ischia, di Levico e di Vignola. E il Lunelli, senza saperlo, aveva in aiuto l'affermazione del celebre P. Maccà, che nella sua storia (2) parlando del Brenta, ebbe a scrivere: Il fiume Brenta scaturisce da una sorgente ( veramente, come avvertì il Lunelli, sorgente non sarebbe ) della montagna di Chiaranzana, che è appresso Pergine, borgo situato nella giurisdizione di Trento. » Avendo dunque chiara l'esistenza della Chiarentana, e proprio dove Dante la pone rispetto al Brenta, sarebbe più che vano l'insistere su tale argomento; e per impugnare le ragioni addotte dal Lunelli, non si potrebbero addurre che cavilli, come già fece lo Scolari.

(1) Cf. IV, 383-384.

(2) Storia del territorio Vicentino, tom. xiv, pag. 420.

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Il prof. Gloria, l'ab. prof. Zanella e il sen, Lampertico (Padovano il primo, Vicentini gli altri due) scrissero e riscrissero su queta terzina, il Gloria facendosi parte da sè stesso, gli altri due ad armi quasi congiunte; ma così, che è un vero piacere ripetere le parole che in loro encomio, facendo della disputa un transunto, nel suo Manuale scrisse il Ferrazzi: Forse giammai letteraria questione venne agitata da campioni sì valenti, con tanta copia di erudizione, sodezza di dottrina, e insieme, cosa rarissima, con tanta cortesia di modi, quale suol essere in anime gentili.

A riassumere pertanto simile quistione e a ventilarne gli opposti argomenti, nessuno reputai più atto dell' illustre ab. Bortolan, prefetto della Biblioteca Comunale di Vicenza, nel quale alla vasta erudizione s'accoppia mirabile lucidezza di criterio e sottigliezza d'ingegno, doti che in lui son vinte soltanto dalla sua modestia. Cedo dunque di buon grado la parola, ben lieto di fregiare questo mio volume d'uno scritto tanto importante.

La maggior parte dei commentatori, con poche irrilevanti differenze, interpreta questa terzina così: Ma presto accadrà che i Padovani per esser crudi al dovere, cioè ostinati contro la giustizia, cangieranno in rosse, faranno sanguigne le acque del palude, che il Bacchiglione forma presso Vicenza. ›

Ê naturale che agli storici municipali vicentini non isfuggissero questi versi, in cui si nominava la loro città e il fiume, che la bagna. Primo ad accennarvi fu il Pagliarino, un cronista vissuto circa la metà del secolo XV, e vi riconosce una profezia di sventure, ma per curioso abbaglio la mette in bocca al Vescovo Folchetto di Marsiglia e non a Cunizza, e pone la strage dei Padovani, che colorò in rosso le acque del Bacchiglione, all' anno 1190.

Anche il Marzani nella sua Historia di Vicenza, stampata la prima volta del 1591 vede in quei versi commemorata alquanto mordacemente una battaglia combattuta tra Padovani e Vicentini nel 1186, battaglia sanguinosa e mortale, per quattro continue hore con dubiosa vittoria durata, in cui restarono i Vicentini finalmente superiori, con tanta strage del Padovano esercito, che fu veduto il Bacchiglione passar per Padova di sangue tinto. Più vicino alla verità quanto all'epoca il Castellini, morto di peste nel 1630, dopo narrata la rotta data da Cane ai Padovani il 17 Settembre 1314 aggiunge: Fu questa battaglia così sanguinosa, che il Bacchiglione corse a Padova tinto di̟ sangue; onde diede occasione a Dante nel nono Canto del Paradiso di farne menzione.

Fra i moderni il Todeschini negli Scritti Danteschi (editi dopo la sua morte) avverte che la indicazione al palude fa conoscere, che qui si parla di una speciale battaglia compiutasi sulle paludi che avvicinavano il Bacchiglione; e perchè i Padovani non vi toccarono presso a Vicenza verun' altra sanguinosa sconfitta, che quella del 17 settembre 1314, ritiene sia questo il fatto annunziato da Cunizza, siccome segnalato gastigo di un crudo orgoglio.

Il Cabianca e il Lampertico nell'illustrazione di Vicenza e del suo territorio credono l' Alighieri accenni alla battaglia del 1314, fatto d'arme che il Mussato giudica il più grande da che mondo è mondo, se pure quei versi non si riferiscono a quei frequenti combattimenti, che fuori di Porta Berica ebbero luogo a Longare tra Vicentini e Padovani per l'acque del Bacchiglione, che i Vicentini volevano deviar dal suo corso.

Lo Zanella nei Cenni di Ferreto de' Ferreti congettura che Dante fosse a Vicenza ospite dello storico vicentino nel 1317 dopo il famoso assalto dato il di della Pentecoste di quell'anno dai Padovani a Vicenza e precisamente alla Porta di Berga, dove

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