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APPENDICE II.

LA SELVA SELVAGGIA E IL MONTE DILETTOSO

I. Della Selva selvaggia, nella quale Dante si smarrì, si è scritto già molto e in varia sentenza; e, piacendo a Dio, si continuerà a scriverne, senza tuttavia sperare, almeno per ora, che si arrivi una buona volta a finire la discussione, e che gli studiosi dell' Allighieri s' accordino nel medesimo concetto. Veramente i vecchi chiosatori (1) su questo, in generale, non erano dissenzienti, e nella selva ravvisarono senz'altro la condizione dell'uomo deviato dal bene e dalla rettitudine. Ma come in altre cose, anche su questa significazione si discostò in parte da loro il commento moderno, dando luogo a interpretazioni, che non solo, per chi ha un po' di pratica in questi studi, sono disformi affatto dalla mente dell' Autore, ma che offendono financo la ragione storica, come incontra di chi nella selva scorge il Priorato, ovvero l'Esilio. Ove si trattasse di scrittori dozzinali (e di siffatti ve n'ha pur tanti anche negli studi danteschi), si potrebbe dire che tali affermazioni fossero effetto d'ignoranza: ma d'uomìni valenti, quali i propugnatori dell' Esilio e del Priorato, non si può dir altro se non che abbiano accolto que' sogni, pur in onta alla storia, per un certo amore di novità, del quale neppure i dotti sanno sempre mantenersi scevri; e soprattutto per non aver tenuto rigida fede alla stessa parola di Dante. Infatti, quanto alla ragione storica, bastava semplicemente osservare e rilevare quando precisamente lo smarrito Poeta si ritrovò per quella selva oscura; e codesto quando risorge chiarissimo dalle parole, che l'Autore altro

(1) Cf. BARTOLI, Stor. della Lett. It., VI, 1, 7, e segg.

ve mette in bocca a Malacoda (Inf. xx1, 112-114); le quali accostate a quelle del C. I. (vv. 37-43), e meglio chiarite e determinate con quanto disse in altro luogo Virgilio (Inf., xx, 127-129), ci fanno conoscere senza dubbio che Dante si ritrovò nella selva, cioè si accorse del suo smarrimento, nel plenilunio del Marzo del 1300, viene a dire oltre a due mesi e mezzo prima della sua assunzione al Priorato. E si badi (e pochi finora ci badarono bastantemente), che il quando del ritrovarsi nella selva è cosa troppo differente dal quando dall' esserci entrato; dacchè tra il fatto dello smarrimento e quello dell' avvedersene e del tentare d' uscirne, corrono degli anni parecchi; e ciò vedremo chiaramente in appresso.

II. Se dunque la selva, storicamente, non può per veruna guisa riferirsi al Priorato, meno ancora è riferibile all' Esilio, che accadde circa un anno e mezzo dopo il Priorato stesso. L'Allighieri, a chi lo studia con grande amore (che vuol dire con rettitudine e senza preconcetti, e voglia in tutto credere alle sue paro. le), ha lasciato nelle sue Opere quanto fa d'uopo per iscansare ogni errore, e per non lasciarsi sedurre e vincere da certe apparenze; le quali, per quanto abbellite d'una certa erudizione, e pompose del suffragio d'uomini illustri, non cessano per questo d'essere apparenze, e di dare per risultato, chi le segua, che di vera luce tenebre dispicchi (Par., XV, 66), con danno grave della verità, con inceppamento de' buoni studi, con offesa manifesta alle stesse parole di Dante.

Che se l'Autore ne dichiara che in quella selva si ritrovò

Nel mezzo del cammin di nostra vita,
Inf. 1, 1;

«

chiarisce ancor più pienamente questo suo pensiero là, dove del suo Esilio scrive nel Convito (I, 3): Fu piacere dei cittadini « della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di get<< tarmi fuori del suo dolcissimo seno, nel quale nato e nudrito « fui fino al colmo della mia vita ». E a Brunetto dirà:

Mi smarrii in una valle

Avanti che l' età mia fosse piena

Inf., xv, 50.

Chi non ignora in che anno, e anco in qual mese sia nato 'Allighieri (cf. Par., xx11, 112-117), e abbia appreso chiaramente da lui stesso le quattro età, in che egli divide la vita umana, e in quale anno ciascuna di esse si compie (Convito, Iv, 23 e 24), non può accogliere oramai nessun dubbio, rispetto alla mente dell' Autore, sull'assoluta esclusione che nella selva selvaggia si possa intendere il Priorato o l' Esilio, e per conseguente neppure, ben nota il Giuliani, i motivi di quello: dal che deriva che la ragione politica non ci ebbe parte di sorta; e questo giova sin da principio fissarsi ben bene nella mente.

III. Or dunque, che significa la selva selvaggia? o, in altre parole, in che consistette lo smarrimento di Dante? quando, come e perchè avvenne? A queste domande, che vanno dritto a si grave quistione, io mi confido di rispondere colle stesse parole del nostro benefico Autore, che è sempre pronto ad ogni uopo de' suoi studiosi.

Per me, lo dichiaro francamente, tutta la sostanza espositiva del sacro Poema altro non è che uno smarrimento; e un ravviamentɔ; un abbandonare la via dritta o verace (Inf. 1, 3, 12), e un ritrovarla in appresso, e rimettersi su quella (1). Intanto è bene tener conto che Virgilio afferma a Catone, che Dante s'era smarrito nella selva non per altro che per la sua follia (Purg., 1, 59); e mentre queste parole confermano quelle, che tra poco udiremo da Beatrice (cf. §. seg.); quelle, che a queste immediatamente susseguono, spiegano quelle del Poeta, quando scrive che il suo animo atterrito e ancor fuggente,

Si volse ind etro a rimirar lo passo,
Che non lasciò giammai persona viva
Inf., 1, 26;

dal che ci si fanno del tutto manifesti e la terribilità dello smarrimento, e il prodigio singolare dello scampo, ciò che la stessa Beatrice non mancherà di confermare (Purg., xxx, 136-38), e che

(1) Il bravo Franciosi (Scritti Vari, pag. 210) nel suo stile sempre colorito: Il viaggio allegorico dei tre regni non è che un tornare da tenebre carnali a luce di spirito, un salire dal cieco mondo, ov'è spenta la vita, alla perfezione dell' essere; é crescimento di luce, è ascensione perenne. »>

il Poeta stesso riconoscerà, chiamando la sua salvezza una magnificenza della Grazia, un procedimento maraviglioso e miracoloso di essa (Par., xxx1, 88: cf. %. xx).

IV. Come poi e per quali motivi sia avvenuto tale smarrimento, lo possiamo apprendere chiaramente da tale testimonio, le cui parole non possono ammettere nè dubbio, nè contraddizione. Beatrice là nel Paradiso Terrestre, alla presenza dei Santi, che la corteggiavano, e rivolta agli Angeli, che la festeggiavano, versando sovra lei una nuvola di fiori (Purg., xxx, 28), santamente sdegnata e nell'atto ancor proterva (ivi, v. 70), così rivede le partite e rifa i conti al suo innamorato:

Voi vigilate nell'eterno die,

Si, che notte nè sonno a voi non fura
Passo, che faccia il secol per sue vie.

Onde la mia risposta è con più cura

Che m'intenda colui, che di là piagne, (1)
Perchè sia colpa e duol d' una misura.

Non pur per ovra delle ruote magne,

Che drizzan ciascun seme ad alcun tine,
Secondo che le stelle son compagne;

Ma per larghezza di grazie divine,
Che si alti vapori hanno a lor piova,
Che nostre viste là non van vicine;

Questi fu tal nella sua vita nuova

Virtualmente, ch' ogni abito destro
Fatto averebbe in lui mirabil prova (2).

E ora comincia propriamente la severa accusa:

Ma tanto più maligno e più silvestro

Si fa il terren col mal seme, e non colto,
Quant' egli ha più di buon vigor terrestro.

(1) Questo indiretto parlare di Beatrice il Poeta lo dice parlare per taglio, mentre chiama parlare per punta quando Beatrice più sotto a lui drittamente volgerà l'amaro discorso (Purg. xxx1, 2). Però c'è una ragione d'arte, che il nostro Autore notò, scrivendo: « Suole lo Rettorico indirettamente parlare altrui, drizzando le sue parole non a quello per cui dice, ma verso un altro. » Convito, II, 12.

(2) Cf. App. III, § V.

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