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meno, chi voglia sostituire, giusta il cod. mon. illas e personas ad illis e personis. E pertanto si dilungò dal vero il Missirini, cui parve d' uscire del forte passo così interpretando ; « Nè quelle consuetudini sono meno utili e belle. Basta uno sguardo per vedere i grandi essersi piegati ai minori. » Ad una si disconvenevole interpretazione ha potuto condurre l'inavvertito errore della volgata. Del quale ben s'accorse il Witte, sicchè aiutandosi del cod. mon., pensò di correggere: Nam si delectabiles et utiles amicitias inspicere libeat, illas persæpius inspicienti eas esse patebit, quæ præeminentes inferioribus coniungant personis. Or di qui neppur viene in pronto l'intenzione dell'Autore; il quale vuol ivi indurci non già a disaminare quali sieno di fatto le amicizie utili e dilettevoli, ma si ad esaminar queste accidentali amicizie, per vedere come eziandio per esse congiungansi bene spesso persone dissimili di stato. Per tutto ciò io sono di fermo avviso doversi scrivere di verità: « Nam si delectabiles et utiles amicitias inspicere libeat, illis persæpius inspicienti patebit, præeminentes inferioribus coniugari personis. La sentenza qui inchiusa risulta chiara ed aperta nel volgarizzamento.

Et si ad veram ac per se amicitiam, etc. E tanto giovi a raffermare, che il sovradetto vuolsi riferire all' amicizia per accidente, a quella cioè che si genera per utilità o per diletto. Laddove l'amistà vera e perpetua e perfetta, a cui ora s' accenna, è quella fatta per onestà: Con. III, 11. Quando altri non riconosca in questa lettera il proprio e verace sigillo di Dante, se vuol esser seco in accordo, non deve neppur riconoscervelo nel Convito.

Nonne illustrium summorumque principum, etc. Chi a ciò pensi, non si maraviglierà che Dante, siccome dello Scaligero, si professasse amico di re Carlo Martello, da cui si fa dire: Assai m'amasti ed avesti ben onde, - che s' io fossi giù stato, io ti mostrava · di mio amor più oltre che le fronde: Par. VIII, 55.

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Sed habet imperitia, etc. Siccome « la parte sensitiva » dell'anima ha suoi occhi, co' quali apprende la differenza » delle cose, in quanto elle sono di fuori colorate; così la » parte razionale ha suo occhio, col quale apprende la dif

GIULIANI.1.

>> ferenza delle cose, in quanto sono ad alcun fine ordinate; » e questa è la discrezione. E siccome colui ch'è cieco degli >> occhi sensibili, va sempre secondo che gli altri, giudicando >> il male e 'l bene; così quegli ch'è cieco del lume della di>> screzione, sempre va nel suo giudizio secondo il grido o >> diritto o falso.... Dell' abito di questa luce discretiva mas» simamente le persone volgari sono orbate.... Questi sono da >> chiamare pecore, non uomini; chè se una pecora si git>> tasse da una ripa di mille passi, tutte l'altre l'andrebbono >> dietro: » Con. III, 11. Oltrechè si avverta, che il sensuale parere, secondo la più gente, è molte volte falsissimo, massimamente nelli sensibili comuni, là dove il senso spesse volte è ingannato. Onde sappiamo che alla più gente, il sole pare di larghezza nel diametro d' un piede: ivi, IV, 8. Queste ultime parole mi darebbero sicuro indizio, che nel luogo premostrato convien leggere non magnitudinis ma si amplitudinis. Del rimanente m' unisco francamente col Torri, affermando, non potersi negare a Dante una epistola ov' ei traduce sè stesso.

Sic et circa unam et alteram rem credulitate decipitur. Il cod. med. aggiugne « sic circa mores et circa unam, etc. » e il Witte, avendo notato nel cod. mon. solo « circa mores vana credulitate decipitur » credette fosse questa la migliore lezione. Ma io non saprei discostarmi dalla volgata, che allargando compie ed avvera la concetta sentenza. Imperocchè nel presente luogo non si riprova il giudizio del volgo rispetto alla moralità, ma sì quanto alla disconvenienza d'amicizia tra persone dissimili di stato. D'altra parte convien far ragione, che la gente volgare nel suo parere suol ingannarsi, perchè in tutte cose, dal proprio mestiere diverse, si lascia guidare non secondo la ragione, ma secondo il senso od il grido (Con. I, 11): a voce più ch' al ver drizzan li volti: Par. XXVI, 121. Le popolari persone la loro usanza pongono in alcuna arte, e a discernere le altre cose non curano, ond' impossibile è a loro discrezione avere, nè quindi rettitudine di giudizio: Con. ivi.

Nos autem. M' attengo all' opinione del Witte, scrivendo autem piuttostochè il volgato enim, giacchè ora si procede a notare la migliore usanza che i savi ed intelligenti diparte

dalla volgare schiera. Pur io sto fermo a credere che bisogni leggere Eos invece di Nos, e così rispettivamente tenentur e adstringuntur anzichè tenemur e adstringimur. In prima, perchè Dante avrebbe mancato a sè stesso, qualvolta con si aperta franchezza si fosse annoverato fra i savi; poi, perchè le cose infrascritte « quum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius dirigantur » e tutto l'altro contesto n' accertano che il discorso deve accomodarsi generalmente alla terza persona.

Nam intellectu divina quadam libertate et ratione dotati etc. Questa volgata lezione non basta a porgermi un chiaro e dicevole concetto, e però tengo fede all' altra de' codici med. e mon. « Nam intellectu et ratione degentes, divina quadam libertate dotati, etc. Bensi in cambio di degentes, vocabolo assai qui male a luogo e falsato, correggo senza esitanza vigentes, come vieppiù acconcio ad esprimere la mente dello scrittore e la verità. Conciossiachè degni di comporre e dirigere le leggi, di che poscia si fa cenno, mostransi quelli soltanto, i quali per vigor d' intelletto e di ragione mantengono diritto il proprio arbitrio, sano e libero dalle consuetudini volgari. E di vero, la virtù intellettuale è norma alle altre tutte Vis intellectualis est regulatrix et rectrix omnium aliarum: Mon. II, 7. Ma a discolparmi dell' ardita correzione, ecco Dante che la suggella, accennando quello della Politica di Aristotele intellectu scilicet vigentes aliis naturaliter principari: » Mon. I, 4. Donde si può trar nuovo argomento, come sia proprio dell' autore De Monarchia questa Epistola a Can della Scala, e si rende ancor meglio palese la ragione che mi obbligò ad accettare l' usitato adstringuntur, anzichè adstringimur siccome dal Witte, seguace del cod. mon. ne venne proposto. Quant'è al ragionamento di Dante, si riduce a questo: «Alle persone volgari, il cui giudizio si ferma pure all' esteriori condizioni umane, può bensi parere presuntuoso che un povero e sventurato si faccia amico ad un gran principe. Laddove i savi, giudicando a norma della ragione, attendono pure alla parte nostra migliore, che è l'animo e la mente, e veggono come indi può nascere e intervenire tal somiglianza fra persone dissimili di stato, da rendere intra loro possibile qualsiasi più stretta amicizia.

§ III. In dogmatibus moralis negotii, etc. Per il negozio morale s'intende l'Etica, come risulta dal § XVI: morale negotium, sive ethica. Ciò rettamente fu notato dal Witte, ma per bene accertare il concetto del nostro autore, vuolsi considerare che due sono le vite umane, la contemplativa e l' attiva o civile (Con. II, 5; IV, 17); quella riposa nell' ozio della speculazione (ivi, I, 1), e questa si esercita nel negozio della morale pratica (dell'etica) o vogliam dire nell'operazione delle virtù morali; l'una s'appaga del vedere, l'altra dell' operare: Par. XVII, 108.

Amicitiam adæquari et salvari analogo doceatur. Il Witte, derivata questa leziene dal cod. mon. s'avvisò di approvarla con quello del Con. III, 1: « Nell' amistà delle per» sone dissimili di stato conviene a conservazione di quella » una proporzione essere intra loro che la dissimilitudine a >> similitudine quasi riduca, siccome intra il signore e 'l » servo. » Senonchè invece di adæquari o del volgato ad quam, son di credere che sia a scrivere adfirmari, perchè ne' sovraccennati luoghi dell'Epistola e del Convito, si ragiona soltanto dell' analogia, mercè cui si conserva e perpetua l'amicizia. D'altro lato una qualche analogia o somiglianza fra persone dissimili di stato, non rende intra esse eguale l'amicizia, ma, come s'è poc' anzi veduto, vale a generarla in qualche modo. In somma, possono gli uomini restare dispari di condizione, disuguali in più guise, e pur tuttavolta aver tra loro alcuna proporzione o relazione di similitudine e quindi amicizia. Le parole del Convito, dove s' illustra ed esemplifica il premostrato insegnamento, danno sicuro valore alla correzione che io pur non ardisco di fare. « Avvegnachè il » servo non possa simile beneficio rendere al signore, quando » da lui è beneficato, deve però rendere quello che migliore » può con tanta sollecitudine e prontezza, che quello che è » dissimile per sè, faccia simile per lo mostramento della » buona volontà, la quale manifesta l'amicizia e ferma e » conserva. » Or qui s'ammiri la costante dottrina dell' Allighieri e la stessa impronta di verità nel Convito e nell' Epistola a Cangrande.

La volgata dopo analogiam fa seguitare qui semel, che

al Torri parve soverchio, forse perchè il conobbe errato. Ma l'errore svanisce, mediante il cod. mon., dove il Witte potè leggere plus quam semel, che ben corrisponde a sæpe del periodo susseguente.

Digniusque gratiusque. Siffatta lezione, la quale si conforma alla verità e rende intero il costrutto, è del cod. mon., donde l'accorto Witte traendola, riusci poi a distrigarla. Le stampe in prima leggevano dignum, il cod. magl. dignusque e quindi il Torri col Dionisi dignumque quid cuiusque; ma tutto ciò, più che altro, basta a spiegare come un testo, una volta male appreso, possa trasformarsi nelle più strane maniere.

Neque ipsi præeminentia vestræ. Con ipsi il Dionisi emendò la volgata ipsum, ma nè l' un nè l'altro si ritrova nel cod. mon., ed io insieme col Witte lo rifiuto, perchè evidentemente superfluo.

Et illam sub præsenti, etc. Dante protesta bensì di voler ascritta, offerta e raccomandata allo Scaligero la sublime cantica del Paradiso: a lui anzi, come propose di destinarla (§ V), n' anticipa il possesso; ma or non gliene presenta compiuto, se non il primo canto a primordio: § IV. Il che sta di fermo, nè quindi importa il sapere, se poi Dante o i suoi figli inviassero allo Scaligero tutta o in gran parte quella cantica, si basta che gli fosse dedicata. Ed è appunto per questa dedicazione, che il poeta vieppiù si travagliava e diveniva magro intorno al suo ultimo lavoro, per affrettarne il compimento. Perciò disse: Vitam parvi pendens, a primordio metam præfixam urgebo ulterius.

Tamquam sub epigrammate proprio dedicatam. Questo viene a dire « come se l'aver io intitolato Paradiso quella cantica, fosse stato un dedicarla a Voi, cui si augura e prega vita per diuturni tempi felice. »

§ IV. Plus domino quam dono. Cosi interpreto io per contrario ai testi vulgati « plus dono quam domino » e diversamente dal Witte e dal Torri, perchè qui l'Allighieri si scusa di troppo ardimento: ciò che non bisognava, se per quella donazione ei si fosse aspettato più di onore, che non poteva tornarne al signor di Verona. E quanto vien in se

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