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gelo, si giaceva nascosto nelle opere de' più valorosi coltivatori della parola di Dio.

Il Vico, se paragonisi ai Padri e massime ad Agostino, non è autore di scienza nuova, ma solo di forma scienziale: ed è poi, benchè con pura intenzione, corruttore di quella scienza, che di sì alta e chiara vena fu derivata dal magno scrittore della divina città. Egli infatti, come se il fiat lux non avesse suonato, verbo primo di civiltà, nel mezzo ai tempi, volle vedere le tenebre della gentilità anco nell' età luminosa dell'espiazione e della preparazione civile (età dei Comuni), e invece dell' Evangelo, in cui virtualmente s'acchiude la storia ideale del mondo, tolse a studio ed a scorta il volume delle romane leggi, coartandone gli angusti dettami ad abbracciare l'ampia distesa dell'umana istoria. Ed ha un bel dire il Gioberti, che i Ricorsi del Vico non escludono il miglioramento successivo, e che la costanza delle leggi mondiali arguisce un ricorrimento perpetuo, benchè ascendente, delle stesse vicende: 1 ma io non vedo come si acconci a cotesto miglioramento successivo il considerare che fa il Vico nell'età di mezzo una perfetta ripetizione della greca e della romana barbarie, e non vedo poi come possa affermarsi il perpetuo ricorrimento, benchè ascendente, delle stesse vicende, da un filosofo cristiano; il quale, usato a cogliere l'intimo delle cose, ben dovrebbe avvisare impossibile un sostanziale ricorso di quelle pagane vicende, che ebbero loro nascosta cagione nell'amore perverso di turpi cose e di false ombre di bene: amore che, vinto ormai, diè luogo ad altro amore più degno e più veramente fecondo di sapienza, di bontà e di bellezza civile. Cotesto perpetuo ricorrimento diventa vero, se si re

1 Nel Primato.

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stringa alla storia dell'umanità pervertita; avvegnachè questa, tenendosi stretta dell'animo ai beni mutevoli della terra, ben conveniva che nelle permutazioni senza triegua di tali beni corresse e ricorresse come travolta da turbine che mai non resti: ma, se voglia allargarsi il principio del pagano ricorrimento all' umanità rinnovata. da Cristo, e' riesce falso del tutto; chè l'animo delle cristiane nazioni vagheggia un bene vero e immutabile, e a lui senz' aggirarsi s'indrizza quasi falcone verso il suo pasto, e come dei fuggevoli beni non s'inalza, così de' mali non si fiacca. «È stato fatto (dirò con Agosti no) per grande misericordia di Dio che tali beni (i terreni) non sieno desiderati come sommi beni da coloro che credono in lui. >>

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Fermato questo, leggermente s'intende che l'Alighieri, se veramente precursore al Vico, avrebbe indietreggiato nel cammino della scienza vera e contradetto a quella sapienza ch'egli coltivava con tanto studio ed amore. Ma veniamo alla prova. Mi par consentito da quel generoso, la cui sentenza io combatto, che Dante togliesse l'idea della sua fortuna da questo luogo di Agostino citato nei migliori degli antichi commenti e

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Il bene posto da Dio innanzi agli occhi dei popoli potrebbe chiamarsi alla dantesca il logoro, che gira Lo Rege eterno con le ruole magne.

2 Il Daniello reca il passo di Agostino sulla Fortuna e dice Dante aver tolto da esso il suo concetto; ma po soggiunge che la Fortuna dantesca permutava i ben vani a capriccio, non secondo giudicio, e cita le Prose del Boezio, ove appunto si ragiona della volubile Dea dei mitologi. I'non so davvero come l'autorità del Boezio si accordi a quella di Agostino, e non so poi come Dante

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modernamente in quello del Tommasèo: « Quelle cause, che diconsi fortuite, non le diciamo nulle, ma latenti e le rechiamo alla volontà o del vero Dio o d'altro spirito. » Or bene, se la figura della Fortuna dantesca fu spirata da queste feconde parole, egli è naturale pensare che la dottrina nascosta sotto cotale figura sia conforme a quella di Agostino: il quale pone nettamente disgiunte le due città, terrestre e divina, per la diversità del principio che le governa. Nell'una l'amore di sè spegne ogni dolcezza di casto affetto e ogni gentile virtù; nell'altra l'amore di Dio e d'ogni bellezza pura, come luce che piove dall'alto, veste gli animi di ogni abito virtuoso e leggiadro. A queste due città del Tagastense rispondono, già lo dissi, l'Inferno e il Purgatorio dantesco e come l'Inferno, città pervertita, è affuocata da eterna fiamma di desiderio insaziabile; cosi all'imo del monte, ove l'umano spirito si purga, la stella dell'amore fa ridere il cielo ad annunziare il Sole (Cristo nella civiltà), che di calore e di luce conforterà il pelle.

grino su per la grave salita.

Adunque il discorso della Fortuna e del suo governo ben s'acconciava là dove è raffigurata l'umana città, che de' beni fuggevoli commessi alla Fortuna piglia sua cura e suo diletto sovrano. E il Poeta, che si fino sentiva le ragioni della convenienza, vuole avvertito questo suo bello accorgimento, ponendo a contrapposto nel luogo

abbia potuto seguirle tutte e due! La stessa, anzi peggior confusione fa Pietro di Dante. Benvenuto vuole avvisarvi ad ogni costo la capricciosa Dea de' Gentili. Ma il Da Buti intende bene, e acutamente nella luce vede significata la natura angelica, secondo l'opinione di Agostino sul fiat lux della Genesi. Al Da Buti si accordano le Chiose anonime pubblicate dal Selmi.

1 Anco nella Bibbia:

Sortes milluntur in sinum, sed a Domino temperantur. (Prov.)

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rispondente del Purgatorio quella fantasia, onde parlerò a suo tempo, della femmina balba (l'ingannevole apparenza de' beni mondani), ch'è vinta e cacciata dalla donna onesta (la verità insegnata da Cristo).

Nè i beni terreni per sè sono cagione di morte, ma l'amarli senza misura: e gli avari dell' Inferno, che da questo amore son vinti, pèrdono in eterno lo mondo pulcro, o, fuor di lettera, ogni bellezza di vita morale e civile; mentre gli avari del Purgatorio, che di quell'amore hanno lieta vittoria, per virtù d'espiazione e di sacrificio s'avviano a quella cima felice, onde scoppia vivo e spontaneo ogni più eletto germoglio.

Non credasi però che, restringendo all'umanità gentilesca il valore allegorico del moto della sfera vôlta in cerchio dalla Fortuna dantesca, io voglia far di questa una cosa colla Dea dei Gentili, stolta, cieca e ingiusta agitatrice della volubile ruota. La Fortuna dantesca è un'angelica mente, che va permutando i beni mondani con giudicio di sapienza e d'amore; e se gli uomini nonsecondino questo giudicio con discrezione di mente e con temperanza di cuore, non è da imputare a quella creatura beata, si all'umana stoltezza, che malamentetrascorre nel desiderio o nell'uso di que' beni: quali certamente sono buoni in sè e dono anch'essi di Dio.

Come poi i cieli, gli astri e 'l loro splendore sono al Poeta simbolo di cose spirituali; cosi qui la luce della sfera della Fortuna vuol essere tolta a simbolo di luce intellettuale d'insegnamento: di quell'insegnamento, che viene agli uomini dalle grandi permutazioni de' beni terreni, da quelle fortunose vicende senza tregua di gente in gente, onde il sommo Duce delle nazioni, gastigando nella sua immutabile potestà la carne oltraggiosa de' popoli, preparava l'animo loro ad accogliere in sè la rive

lazione della sua sapienza, perfettissimo lume, nella cui vista avrà lieta pace l'uomo e l'umanità.

3. La ragione abbandonata a sè stessa fu l'unica guida dell' umana famiglia innanzi Cristo.

"Ma non cinquanta volte fia raccess

La faccia della donna che qui regge,
Che tu saprai quanto quell'arte pesa. „
Inf., x.

Mentre nel sole, che di sè veste le spalle al monte felice dell'umana perfezione, ravvisai figurato il Dio rivelatore, fonte di luce perenne alle menti create; or di rincontro nella luna, che del suo lume riflesso giova il Poeta per la selva fonda e pel cammino alto e silvestro della buca infernale, io veggo simboleggiata la virtù della ragione, lume riflesso del Volto di Dio, che non cessò mai, benchè affievolito, di alluminare l'umanità rovinante al basso dell'errore e del vizio. Ma questo lume fioco, e talor soverchiato dalle tenebre della carne, non bastava a rilevare l'uomo verso l'altezza raggiante che aveva perduto: e un desiderio insaziabile consumò senza frutto i migliori spiriti dell'antichità. 1 Or siffatta impotenza occorreva, perchè l'umana ragione, partitasi dal sommo Sole del vero e del bene, volle farsi fonte di luce e unica dominatrice nel cielo dell'umana schiatta.

1

« E desiar vedesti senza frutto

Tai, che sarebbe lor desio quetato,

Ch' eternalmente è dato lor per lutto:

I' dico d' Aristotile e di Plato

E d'altri molti

.

Purg, III.

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