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Può ristorar molt' anni, e 'nnanzi l'alba

Puommi arricchir dal tramontar del Sole.

Prima ch'i torni a voi ecc., Prima ch'io muoia, e così torni, secondo Platone, alla mia stella, o cada (tomi) nella selva dei mirti, dove, secondo Virgilio (Aen. VI) stanno le anime degli innamorati. Trita terra, Polvere, cenere. Vedess' io, maniera desiderativa. Può ristorar molt'anni ecc., Mi può compensare le pene di molti anni, e dal tramontar del sole prima che arrivi l'alba seguente, può farmi beato.

Con lei foss'io da che si parte il Sole,

E non ci vedess' altri che le stelle;
Sol una notte; e mai non fosse l'alba;
E non si trasformasse in verde selva
Per uscirmi di braccia, come il giorno

Che Apollo la seguía quaggiù per terra!

Con lei foss' io ecc. I primi tre versi di questa Stanza sono divini, e spirano tutta la verità di un amore profondo. Starsi una sola notte con la sua Donna, senz'altro testimonio che le stelle, e quella notte non finir mai! Ma dopo torna a impicciarsi con la mitologia, con Apollo, col lauro, e con Dafne, con la quale confonde Laura, perche Dafne in greco significa Lauro. - In verde selva, In albero fronzuto, conforme a uno dei significati del lat. silva.

Ma io sarò sotterra in secca selva,

E'l giorno andrà pien di minute stelle,
Prima ch'a si dolce alba arrivi il Sole.

In secca selva, In legno secco, cioè nella cassa mortuaria. - E il giorno andrà ecc., E di giorno si vedranno le stelle: cosa impossibile.

CANZONE I-4

Perduta la libertà, servo di Amore, descrive
e compiange il proprio stato

Nel dolce tempo della prima etade,
Che nascer vide, ed ancor quasi in erba,
La fera voglia che per mio mal crebbe;
Perchè, cantando, il duol si disacerba,
Canterò com' io vissi in libertade,

Mentre Amor nel mio albergo a sdegno s'ebbe;
Poi seguirò siccome a lui ne 'ncrebbe

Troppo altamente, e che di ciò m'avvenne;

Di ch'io son fatto a molta gente esempio:
Benchè 'l mio duro scempio

Sia scritto altrove sì, che mille penne
Ne son già stanche; e quasi in ogni valle
Rimbombi'l suon de' miei gravi sospiri,
Ch'acquistan fede alla penosa vita.
E se qui la memoria non m'aita,
Come suol fare, iscusinla i martiri,
Ed un pensier che solo angoscia dalle
Tal, ch'ad ogni altro fa voltar le spalle,
E mi face obblïar me stesso a forza;

Chè tien di me quel d'entro, ed io la scorza.

Nel dolce tempo fino a vita. È un periodo lungo ed intralciato; ma il suo intralciamento sarà più apparente che reale per chi osservi la successione delle idee nella mente del P. Riducendo adunque il periodo a fil di Grammatica, costruisci cosi: Canterò, perchè cantando il duol si disacerba, com' io vissi in libertade nel dolce tempo della prima etade, che vide nascere, ed ancor quasi in erba, la fera voglia che per mio mal crebbe; mentre Amore s' ebbe a sdegno nel mio albergo: poi seguirò siccome a lui ne increbbe troppo altamente, e che di ciò avvenne (di ch'io son fatto a molta gente esempio); benchè il mio duro scempio sia scritto altrove si ecc. Quasi in erba, Poco più che nato. Perchè, cantando ecc. Orazio (Od. IV, 11): « Minuentur atrae Carmine curae. » A sdegno s'ebbe, Fu sdegnato, non fu accolto. Nel mio albergo, Nell' albergo del mio cuore. - Seguirò, suppl. a cantare. Altamente, Profondamente. E che di ciò m'avvenne, E che cosa avvenne a me da questo profondo increscimento d'Amore. Di che, Onde, per tal cagione. - Sia scritto altrove, In altre pagine mie, in altre mie rime, per le quali (tante sono esse) ho stancato molte penne. È chiaro che la Canzone fu scritta molto tempo dopo l'innamoramento del P. - Ch' acquistan fede ecc., Che fanno fede dei travagli della mia vita. - Se qui, Se nel narrare i miei casi. Fa voltar le spalle, Mi fa voltare le spalle a ogni altro pensiero, me lo fa dimenticare, e mi fa dimenticare a forza anche me stesso. Tien di me quel d'entro, Ha in suo potere il mio interno, l'animo mio, mentre io posseggo solo l'esterno (la scorza), il corpo.

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I' dico, che dal dì che 'l primo assalto
Mi diede Amor, molt'anni eran passati,
Si ch'io cangiava il giovenile aspetto;
E d'intorno al mio cor pensier gelati
Fatto avean quasi adamantino smalto,
Ch'allentar non lassava il duro affetto.

Lagrima ancor non mi bagnava il petto,
Nè rompea il sonno; e quel ch'in me non era,
Mi pareva un miracolo in altrui.

Lasso! che son? che fui?

La vita al fin, e 'l di loda la sera;
Chè sentendo il crudel, di ch'io ragiono,
Infin allor percossa di suo strale
Non essermi passato oltra la gonna,
Prese in sua scorta una possente Donna,
Vêr cui poco giammai mi valse o vale
Ingegno o forza, o dimandar perdono.
Ei duo mi trasformaro in quel ch'i' sono,
Facendomi d'uom vivo un lauro verde,
Che per fredda stagion foglia non perde.

Molt'anni eran passati, Nove o dieci, supposto che a'sedici o diciassette anni il P. sentisse i primi impulsi d'amore; poichè a' ventitrè s'innamorò di Laura. Il duro affetto, Il rigido, fermo sentimento o proposito di non amare. Duro usò anche Dante (Par. XI) in questo stesso senso: «Ma regalmente sua dura intenzione Ad Innocenzio aperse. » La vita al fin ecc., Loda

è imperativo, e la maniera proverbiale significa che per lodare la vita di un uomo conviene aspettarne la fine, come per lodare una bella giornata bisogna aspettar la sera. La lez. La vita al fin ecc., è di tutte le ediz. da me consultate. Ma la Nuova Crusca ha La vita il fin ecc.; e forse questa è la vera lezione. – Sentendo, Accorgendosi; il lat. sentiens. - Percossa, Colpo; lat. ictus. - Non essermi passato oltre la gonna, Non esser passato oltre le vesti, non esser giunto a ferirmi. In sua scorta, In suo aiuto. - Ingegno, Arte, accorgimento. - Ei duo, Eglino due, Amore e Laura. Facendomi ecc., Avendomi di persona viva cambiato in lauro, ossia avendo immedesimato me in Laura.

Qual mi fec'io quando primier m'accorsi
Della trasfigurata mia persona;

E i capei vidi far di quella fronde,
Di che sperato avea già lor corona;
E i piedi in ch'io mi stetti e mossi e corsi
(Com'ogni membro all'anima risponde),
Diventar due radici sovra l'onde,

Non di Penèo, ma d'un più altero fiume;
E 'n duo rami mutarsi ambe le braccia!
Nè meno ancor m'agghiaccia

L'esser coverto poi di bianche piume,
Allor che fulminato e morto giacque

Il mio sperar, che troppo alto montava.
Chè, perch' io non sapea dove nè quando
Me'l ritrovassi, solo, lagrimando,

Là 've tolto mi fu, di e notte andava
Ricercando dal lato e dentro all'acque:
E giammai poi la mia lingua non tacque,
Mentre potéo, del suo cader maligno;

Ond' io presi col suon color d'un cigno.

Primier, è in forza d'avverbio, e vale Primamente; uso tolto dal provenz. (V. Canz. IV, st. 5). – Far, Farsi di quella fronda, della quale aveva sperato che sarebbero coronati. Sperava il P. fin d'allora la corona poetica, che poi ebbe in Roma nel 1341. - In ch'io mi stetti, In sui quali stetti ritto, mi mossi, corsi. - Com', Poichè. - Risponde, Corrisponde, ubbidisce. L'anima del P. non essendo più d'uomo ma di pianta, conveniva che anche il corpo pianta addivenisse. – Sovra, Lungo, presso. Dante (Inf. XXIII): « I' fui nato e cresciuto Sovra'l bel fiume d'Arno. » - Non di Penèo, lungo il quale avvenne il fatto di Dafne, ma di fiume più nobile, più grande, il Rodano o il Sorga. - M'agghiaccia, int. di paura, mi spaventa. Alla prima trasformazione succede una seconda, la trasformazione in cigno. Fulminato color d'un cigno. Il P. richiama qui la favola di Fetonte e di Cigno, facendo intendere che come Fetonte per troppo inalzarsi fu fulminato da Giove, così la sua speranza fu fulminata dallo sdegno di Laura; ond' egli nella guisa che Cigno zio di Fetonte l'andò cercando e piangendo intorno al Po, e alfine fu convertito in uccello, così egli, affannandosi per la passione della ripulsa divenne canuto, e pianse intorno al fiume la morte della sua speranza. Il mio sperar. Orazio (Carm., IV, 11): « Terret ambustus Phaeton avaras spes. >> Del suo cader maligno, Della sua infelice, dannosa caduta. - Col suon, Con la voce. · Color d'un cigno, Quanto al colore del cigno che è bianco il P. vuole accennare la sua canutezza, cominciata fino dalla prima gioventù, come racconta esso medesimo nelle Opere latine. (L.).

Cosi lungo l'amate rive andai;

Che volendo parlar, cantava sempre,
Mercè chiamando con estrania voce:
Nè mai in si dolci o in si soavi tempre
Risonar seppi gli amorosi guai,
Che 'l cor s'umilïasse, aspro e feroce.
Qual fu a sentir, che 'l ricordar mi coce?
Ma molto più di quel ch'è per innanzi,
Della dolce ed acerba mia nemica

È bisogno ch'io dica;

Benchè sia tal, ch'ogni parlare avanzi.

Questa, che col mirar gli animi fura,
M'aperse il petto, e 'l cor prese con mano,
Dicendo a me: Di ciò non far parola.
Poi la rividi in altro abito sola,

Tal, ch'i' non la conobbi (oh senso umano!);
Anzi le dissi 'l ver, pien di

paura:

Ed ella nell'usata sua figura

Tosto tornando, fecemi, oimè lasso!
D'uom, quasi vivo e sbigottito sasso.

1

Con estrania voce, Con voce non mia, ma di cigno. Tempre, Modi. Dante (Purg. XXX): « Ma poi che intesi nelle dolci tempre Lor compatire a me, ecc. » Risonar, usato transitivam. per Far risonare, Esprimere cantando. Virgilio (Eclog. 1): « Formosam resonare doces Amaryllida silvas. >> Si umiliasse, Si piegasse verso di me. Qual fu a sentir che ecc., Qual mi diè allor pena ciò che adesso mi tormenta al solo ricordarlo? - Ch' è per innanzi, Che è per il passato. Benchè sia tal ecc., Benchè quello che debbo dire sia tale che supera ogni parlare. - Questa, Laura. M'aperse il petto ecc. Probabilmente il P. con tale immaginazione accenna a qualche dimostrazion d'amore datagli da Laura, con divieto di farne parola. In altro abito, In atteggiamento più benigno del consueto. Sola, il che dava più coraggio al P., il quale non riconoscendola, e prendendola per un'altra donna, fece a lei la confessione dell'amor suo per Laura; onde questa, ripreso il solito suo rigore (nell'usata sua figura.... tornando), ecc. - Sasso. Anche qui è un'allusione mitologica, e ricorda la favola di Mercurio e di Batto. Ruba Mercurio gli armenti ad Apollo e conviene con Batto il quale era presente, che non lo scoprisse. Mercurio si trasforma e promette a Batto un guiderdone se gli scuopre il furto. Egli lo fa ed è mutato in sasso.

Ella parlava si turbata in vista,

Che tremar mi fea dentro a quella petra,
Udendo: I'non son forse chi tu credi.
E dicea meco: Se costei mi spetra,
Nulla vita mi fia noiosa o trista:
A farmi lagrimar, signor mio, riedi.
Come, non so; pur io mossi indi i piedi,
Non altrui incolpando, che me stesso,
Mezzo, tutto quel dì, tra vivo e morto.
Ma perchè 'l tempo è corto,

La penna al buon voler non può gir presso:
Onde più cose nella mente scritte
Vo trapassando; e sol d'alcune parlo,
Che maraviglia fanno a chi l'ascolta.

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