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Ah vero Dio, ch' a perdonar benegno
Sei a ciascun, che col pensier si calca,
Quest'anima bivalca

Sempre è stata d'amor coltivatrice,
Ritornerà nel grembo di Beatrice.
Qual oggi mai da gli amorosi dubi
Sarà a nostri intelletti secur passo,
Poi ch'è caduto, ahi lasso

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ponte ove passaro i peregrini?
Ma il veggio sotto nubi

Del suo aspetto si copre ognun basso,
Siccome 'l duro sasso

Si copre d'erba e talora di spini.

Ah dolce lingua, che con tuoi latini
Facci contento ciascun che t'udia

Quanto dolor si dia

Ciascun che verso amor la mente ha volta.

Canzone mia, a la nuda Fiorenza

Oggi ma' di speranza te n' andrai ;

Di che ben po' trar guai,

Ch' omai ha ben di lungi al becco l'erba
Ecco la profezia che ciò sentenza
Or è compiuta, Fiorenza, e tu 'l sai
Se tu conoscerai

Il tuo gran danno piangi che t'acerba.
E quella savia Ravenna che serba
Il tuo tesoro allegra se ne goda,
Ch'è degna per gran loda.
Così volesse Iddio che per vendetta
Fosse deserta l' iniqua tua setta.

XXII.

Io prego donna mia,

Lo cuor gentil, ch'è nel nostro cuore:
Che da morte, e d'amore

Mi campi stando in vostra signoria.

E per tua cortèsia

Lo può ben fare senza uscire fuore

Che non disdice onore

Sembiante alcun, che di pietate sia.

Io mi starò gentil donna di poco

Ben lungamente in gioia.

Non sì, che tuttavia non arda in fuoco:

Ma standomi così purch'io non muoia,
Verrò di rado in luoco

Che dello mio veder vi faccia noia.

Cino da Pistoia (1300)

XXIII.

MOR, quando per farmi ben felice
L'alta amorosa spina nel cor mio
Piantò con la gran forza del disio
Che fin ne le mie piante ha la radice:

Mi fè vie singular più che fenice

Mentre a mia voglia a morte l'alma invio:

E poi mi tiene nel tenace oblio

Si, che me ricordar di me non lice.

Da indi in quà mia voce mai non tacque,
Ma sempre, ovunque io fussi, lacrimando
D'amore e di Madonna si ragiona.

Cosi di lei parlar ognor mi piacque,

Il suo bel nome ne' miei detti alzando
Che in tante parti per mia lingua suona.
Giusto dei Conti (1410)

XXIV.

Dal terzo ciel nel bel sembiante umano

Ove ogni stella quanto può diffonde,
Cade virtù si fatta, che confonde

Chi presso il guarda, e strugge di lontano.
E col poder che poi lui preso ha in mano,
Cangiato ha le sue prime trecce bionde ;
E tolto ogni beltà che vede altronde
Per far quanto è qua giù caduco e vano.
Rubato al sole ha le dorate chiome

E quelle luci ladre e il chiaro viso;
A Venere l'andare e le parole.

Così a gli Dei fa forza, e non so come

Chi può consenta il cielo e il paradiso
Impoverir per arricchir lei sola.

Giusto dei Conti.

(*) Una Iapide antichissima della famiglia degli Ubaldini di Firenze contiene uno dei più antichi Testi di Lingua Italiana; imperciocchè in occasione che l'anno 1184 Federico I, detto Barbarossa, si tratteneva ad una caccia in Mugello nel Fiorentino, uno di detta famiglia appellato Ubaldino figliuolo d' Ugiccio, fermò nella presenza dell' Imperatore un grosso cervo, afferrandolo per le corna nel maggior corso, di maniera che Federico a grand'agio potè ucciderlo; perlochè gli fece dono della testa della fiera, con privilegio d' alzarla per sua arma gentilizia; ed egli non solamente volle, finchè visse esser chiamato Ubaldino del Cervo, ma fece anche memoria di tutto ciò in tali rozzissimi versetti volgari, che furono scolpiti in marmo de' quali a gran fatica s'intende il senso; non che abbiano alcuna forma poetica, tolta la rima. Ubaldino potè aver appreso a far versi da' Siciliani, che forse erano con Federico.

SULLA

IMPORTANZA E GARATTERE

DELLE POESIE LIRICHE

DI

DANTE

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