Ah vero Dio, ch' a perdonar benegno Sempre è stata d'amor coltivatrice, ponte ove passaro i peregrini? Del suo aspetto si copre ognun basso, Si copre d'erba e talora di spini. Ah dolce lingua, che con tuoi latini Quanto dolor si dia Ciascun che verso amor la mente ha volta. Canzone mia, a la nuda Fiorenza Oggi ma' di speranza te n' andrai ; Di che ben po' trar guai, Ch' omai ha ben di lungi al becco l'erba Il tuo gran danno piangi che t'acerba. XXII. Io prego donna mia, Lo cuor gentil, ch'è nel nostro cuore: Mi campi stando in vostra signoria. E per tua cortèsia Lo può ben fare senza uscire fuore Che non disdice onore Sembiante alcun, che di pietate sia. Io mi starò gentil donna di poco Ben lungamente in gioia. Non sì, che tuttavia non arda in fuoco: Ma standomi così purch'io non muoia, Che dello mio veder vi faccia noia. Cino da Pistoia (1300) XXIII. MOR, quando per farmi ben felice Mi fè vie singular più che fenice Mentre a mia voglia a morte l'alma invio: E poi mi tiene nel tenace oblio Si, che me ricordar di me non lice. Da indi in quà mia voce mai non tacque, Cosi di lei parlar ognor mi piacque, Il suo bel nome ne' miei detti alzando XXIV. Dal terzo ciel nel bel sembiante umano Ove ogni stella quanto può diffonde, Chi presso il guarda, e strugge di lontano. E quelle luci ladre e il chiaro viso; Così a gli Dei fa forza, e non so come Chi può consenta il cielo e il paradiso Giusto dei Conti. (*) Una Iapide antichissima della famiglia degli Ubaldini di Firenze contiene uno dei più antichi Testi di Lingua Italiana; imperciocchè in occasione che l'anno 1184 Federico I, detto Barbarossa, si tratteneva ad una caccia in Mugello nel Fiorentino, uno di detta famiglia appellato Ubaldino figliuolo d' Ugiccio, fermò nella presenza dell' Imperatore un grosso cervo, afferrandolo per le corna nel maggior corso, di maniera che Federico a grand'agio potè ucciderlo; perlochè gli fece dono della testa della fiera, con privilegio d' alzarla per sua arma gentilizia; ed egli non solamente volle, finchè visse esser chiamato Ubaldino del Cervo, ma fece anche memoria di tutto ciò in tali rozzissimi versetti volgari, che furono scolpiti in marmo de' quali a gran fatica s'intende il senso; non che abbiano alcuna forma poetica, tolta la rima. Ubaldino potè aver appreso a far versi da' Siciliani, che forse erano con Federico. |