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filosofanti, che il mio giudizio in questo seguiteranno, lasceranno lo sposarsi aʼricchi stolti et a' signori, e similemente a' lavoratori, et essi colla filosofia si diletteranno molto più piacevole e migliore sposa che alcuna altra.

Tirò appresso di sè lo stimolo della moglie al nostro Poeta un'altra quasi inevitabil gravezza, e questa fu la sollecitudine d'allevare i figliuoli, perciò che in breve spazio di tempo padre di famiglia divenne; e, stringendolo Ja domestica cura, quel tempo che alle eccelse meditazioni soluto soleva prestare, costretto da necessità, convenia ch'egli concedesse a' pensieri donde dovessero i salarj delle nutrici venire, e i vestimenti de' figliuoli, e l'altre cose opportune a chi più secondo l'opinione del volgo che secondo la filosofica verità convien che viva. Il che quanto di pentimento alli suoi studj prestasse, assai leggiermente conoscere si de'da ciascuno.

Da questa per avventura ne gli nacque una cosa maggiore; perciò che l'altiero animo avendo le minor cose in fastidio, e per le maggiori stimando quelle potersi cessare della famigliar cura, transvolò alla pubblica, nella qual tanto e subitamente sì l'avvilupparono i vani onori, che, senza guardare d'onde s'era partito e dove andava con abbandonate redine, messa la filosofia in obblio, quasi tutto della repubblica cogli altri cittadini più solenni al governo si diede, e fugli tanto in ciò alcun tempo la fortuna seconda, che di tutte le maggiori cose occorrenti la sua deliberazion s' attendeva. In lui tutta la pubblica fede, in lui tutta la speranza pubblica, in lui sommamente le divine cose e l' umane parevano esser fermate. Che questa gloria vana, questa pompa, questo vento fallace gonfi maravigliosamente i petti de'mortali, e gli atti e i portamenti di coloro che ne' reggimenti delle città son maggiori, et il fervente appetito che di quelli hanno generalmente

gli stolti, assai leggiermente agli occhi de'savj il possono dimostrare. E come si dee credere che, in tra tanto tumulto, in tra tanto rivolgimento di cose, quanto dee continuamente essere nelle gonfiate menti de' presidenti, deano potere aver luogo le considerazioni filosofiche, le quali, come già detto è, somma pace d'animo vogliono? In queste tumultuosità fu il nostro DANTE inviluppato più anni, e tanto più che un altro, quanto il suo desiderio tutto tirava al ben pubblico, dove quel degli altri, o della maggior parte, tirannescamente al privato bada; perchè, oltre all'altre sollecitudini, in continua battaglia essere gli convenia. Ma la fortuna, volgitrice de' nostri consigli e nemica d'ogni umano stato, assai diverso fine pose al principio, il quale a voler dimostrare, un pochetto s'amplierà la novella.

Era nel tempo del glorioso stato del nostro Poeta la fiorentina Cittadinanza in due parti perversissimamente divisa, le quali parti riducere a unità DANTE invano s'affaticò molte volte. Di che poi che s'accorse, prima seco propose, posto giù ogni pubblico uffizio, di viver seco privatamente; ma, dalla dolcezza della gloria tirato, e dal favor popolesco, e ancora dalle persuasion de' maggiori, sperando di potere, se tempo gli fosse prestato, molto di bene operare, lasciò la disposizione utile, e perseverando seguitò la dannosa. Et accorgendosi che per sè medesimo non poteva una terza parte tenere, la quale giusta, la ingiustizia delle altre abbattesse, con quella si accostò, nella quale, secondo il suo giudizio, era meno di malvagità. Et aumentandosi per varj accidenti continuamente gli odj delle parti, et il tempo vegnendo che gli occulti consigli della minacciante fortuna si dovevano scoprire, nacque una voce per tutta la città, la parte avversa a quella colla quale DANTE teneva, grandissima moltitudine d'armati in

disfacimento de loro av versarj aver nelle case loro. La qual cosa creduta spaventò si i collegati di DANTE, che, ogni altro consiglio abbandonato, che di fuggire, non cacciati dalla città s'uscirono, e con loro insieme DANTE. Nè molti di trapassarono che, avendo i lor nemici il reggimento tutto della città, come nemici pubblici, tutti quelli che fuggiti s'erano furono in perpetuo esilio dannati, et i lor beni ridotti in pubblico e conceduti a' vincitori.

Questo fine ebbe la gloriosa maggioranza di DANTE e de' suoi cittadini, e le sue pietose fatiche questo merito riportarono. Lasciati adunque la moglie e i piccoli figliuoli nelle mani della fortuna, et uscito di quella città, nella qual mai tornare non doveva, sperando in breve dovere essere la ritornata, più anni per Toscana e per Lombardia, quasi da estrema povertà costretto, gravissimi sdegni portando nel petto, s'andò avvolgendo. Et egli primieramente rifuggì a Verona; quivi dal Signore della terra ricevuto e onorato fu volentieri e sovvenuto. Quindi in Toscana tornato, se ne fu per alcun tempo col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marchese Moruello Malaspina in Lunigiana; et ancora per alcuno spazio fu coi Signori della Faggiuola ne' monti vicini a Urbino. Quindi n'andò a Bologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancora ri-. tornò a Verona. Ma, essendo già dopo la sua partita di Firenze più anni passati, nè apparendo alcuna via di potere in quella tornare, ingannato trovandosi del suo avviso, e quasi del mai dovervi tornare disperando, si dispose del tutto d'abbandonare Italia; e, passati gli Alpi, come potè se n' andò a Parigi, acciò che, quivi a suo potere studiando, alla filosofia il tempo, che nell'altre sollecitudini vane tolto le avea, restituisse. Udì adunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, non senza gran disagio delle cose opportune alla vita. Da questo il tolse una speranza presa

di potere in casa sua ritornare colla forza d'Arrigo di Luzinhorgo imperadore. Perchè, lasciati gli studj e in Italia tornatosi, e con certi rubelli de' Fiorentini congiuntosi, insieme con loro con prieghi, con lettere e con ambasciate, s'impegnò di rimuovere il detto Arrigo dallo assedio di Brescia, e di conducerlo intorno alla sua città, estimando quella contro a lui non potersi tenere. Ma la riuscita contraria gli fece palese il suo avviso essere stato vano. Assediò Arrigo la città di Firenze; e ultimamente, vana vedendo la stanza, se ne partì, e, non dopo molto tempo passando di questa vita, ogni speranza ruppe del nostro Poeta, il quale in Romagna se ne passò, dove l'ultimo suo dì, il quale alle fatiche sue dovea por fine, l'aspettava.

Era in quel tempo signor di Ravenna, antichissima città di Romagna, un nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel di Polenta, nelli liberali studj ammaestrato, et amatore degli scenziati uomini ; il quale, udendo Dante, cni per fama lungamente avanti avea conosciuto, come disperato essersene venuto in Romagna, conoscendo la vergogna de' valorosi nel domandare, con liberale animo si fece incontro al suo bisogno, e lui di ciò volonteroso onorevolmente ricevette, etenne infino all'ultimo di di lui.

Assai credo che manifesto sia da quanti e quali accidenti contrarj agli studj fosse infestato il nostro Poeta, il quale nè gli amorosi desiri, nè le dolenti lagrime, nè gli stimoli della moglie, nè la sollecitudine casalinga, nè la lusinghevole gloria de' pubblici uffizj, nè il subito et impetuoso mutamento della fortuna, nè le faticose circuizioni, nè il lungo e misero esilio, nè la intollerabile povertà, tutte involatrici di tempo agli studianti, nol poterono col. le lor forze vincere, nè dal principale intendimento rimuovere, cioè da' sacri studj della filosofia, siccome assai

chiaramente dimostrano l'opere che da lui composte leggiamo. Che diranno qui coloro, agli studj dei quali non bastando della lor casa, cercano le solitudini delle selve? che coloro, a'quali è riposo continuo, et a'quali l'ampie facultà senza alcun lor pensiero ogni cosa opportuna ministrano? che coloro che, soluti da moglie e da figliuoli, liberi possono vacare a lor piaceri? de'quali assai sono, che, se ad agio non sedessero, o udissero uno mormorìo, non potrebbono, non che meditare, ma leggere, nè scrivere, se non fosse il gomito riposato. Certo niuna altra cosa potranno dire, se non che il nostro Poeta, e per gli impeti superati e per l'acquistata scienzia, sia di doppia corona da onorare. Ma da ritornare è alla intralasciata materia.

Abitò dunque DANTE in Ravenna più anni nella grazia di quel Signore, e quivi a molti dimostrò la ragione del dire in rima, la quale maravigliosamente esaltò. Essendo già al quinquagesimosesto anno della sua età, e pervenuto infermo, e come vero cristiano riconciliatosi, per vera contrizione e confessione delle sue colpe commesse, a Dio, del mese di settembre, correnti gli anni di Cristo MCCCXXI., il dì che la esaltazion della santa Croce si celebra, passò dalla presente vita. La cui anima creder possiamo essere stata nelle braccia della sua nobile Beatrice ricevuta e presentata nel cospetto di Dio, acciò che quivi in riposo perpetuo prenda merito delle fatiche passate.

Fu la morte del nostro Poeta al magnifico cavaliere assai gravosa; il quale, fatto il corpo del defunto ornare d'ornamenti poetici, e quello porre sopra un funebre letto, sopra gli omeri di più eccellenti Ravignani il fece nella chiesa de' frati Minori, con quello onore che a tanto uomo si conveniva, portare, e quivi in una arca lapidea seppellire, con animo di fargli una egregia e notabile sepoltura. Quindi, nella casa nella quale DANTE era prima Vol. V.

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