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sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli, quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di sè medesimo, più anui con diversi amici e signori andò vagando. Ma non potè la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura ne' forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio, nel quale scritti erano li predetti sette canti, li quali con ammirazione leggendo, nè sappiendo che fossero, del luogo dove erano sottrattigli, gli portò a un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in rima, e glieli mostrò . Li quali avendo veduto Dino, e maravigliatosi si pel bello e pulito stile, sì per la profondità del senso, il quale sotto la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo quegli essere opera di DANTE immaginò; e dolendosi quella essere rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato DANTE in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malaspina, non a lui, ma al Marchese e l'accidente e 'l desiderio suo aperse, e mandogli i sette canti. Li quali poichè il Marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a DANTE, domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali DANTE riconosciutigli, subito rispose che sua. Allora il pregò il Marchese che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sì alto principio. Certo, disse DANTE, io mi credea nella ruina delle mie cose questi con molti altri miei libri aver perduti; e per ciò sì per questa credenza, e si per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mio esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera Vol. V.

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persa, abbandonata. Ma poichè inopinatamente innanzi mi sono ripinti, e a voi aggrada, io cercherò di rivocar nella mia mente la imaginazione di ciò prima avuta, e, secondo che grazia prestata mi fia, così avanti procederò. Creder si dee lui senza fatica aver la intralasciata fantasia ritrovata; la quale seguitando, così cominciò: Io dico seguitando, c'assai prima; dove assai manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera intermessa riconoscere.

Ricominciato adunque da DANTE il magnifico lavorio non forse, secondo che molti stimano, senza più interromperlo, quello perdusse a fine; anzi più volte, secondo che la gravità de' casi sopravvegnenti richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa, interponea; intanto che, più avacciar non potendosi, avanti che tutto il pubblicasse il sopraggiunse la morte. Egli era sua usanza, come sei o otto canti fatti n' avea, quegli, prima che alcun gli vedesse, mandare a messere Cane della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro uomo in reverenza avea; e, poichè da lui eran veduti, ne faceva copia a chi li volea. Et in così fatta maniera avendoglieli tutti, fuori che gli ultimi xu canti, mandati, ancora che questi xi fatti avesse, avvenne che senza farne alcuna memoria si morì; nè, più volte cercati da' figliuoli, mai furono potuti trovare; perchè Jacopo e Piero suoi figliuoli e ciascun dicitore, dagli amici pregati che l'opera terminassero del padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Ma una mirabile visione a Jacopo, che in ciò era più fervente, apparita, lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzione levò, ma mostrò dove fossero li xı cauti tanto da lor cercati.

Raccontava un valentuomo Ravignano, il cui nome fu Piero Giardino, lungamente stato discepolo di DANTE,

per

grave di costumi e degno di fede, che dopo l'ottavo mese dal di della morte del suo Maestro venne una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo mattutino, alla casa sua Jacopo di DANTE, e dissegli sè quella notte poco avanti a quell'ora avere veduto nel sonno DANTE suo padre, vestito di candidissimi vestimenti, e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli pareva domandare se'l vivea, e udire da lui per risposta di sì, ma della vera vita, non della nostra: perchè, oltre a questo, gli pareva ancora dimandare se egli avea compiuta la sua opera avanti al suo passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fosse quello vi mancava, da lor giammai non potuto trovare. A questo gli pareva similemente udire risposta: sì, io la compiei: e quinci gli parea che 'l prendesse per mano, e menasselo in quella camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea, e, toccando una parete di quella, dicea : egli è qui quello che voi tanto avele cercato; e, questa parola detta, ad un'ora il sonno e DANTE gli parve si partissero. Per la qual cosa affermava sè non esser potuto stare senza venire a significare ciò che veduto avea, acciò che insieme andassero a cercare nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente avea nella memoria segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, come che ancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa, nella quale DANTE quando mori dimorava; e chiamato colui che allora in essa dimorava, e dentro da lui ricevutivi, al mostrato luogo n'andarono, e quivi trovarono una stuoia al muro confitta, siccome per lo passato continuamente veduto v'aveano; la quale leggiermente in alto levata, videro nel muro una finestretta, da niuno di loro mai più veduta, nè saputo ch'ella vi fosse, et in quella trovarono più scritte, tutte per l'umidità del

muro muffate, e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, vider segnate a numeri, e continuatele, insieme li xin canti, che alla Commedia mancavano, ritrovar tutti. Per la qual cosa lietissimi quegli rescrissono, e, secondo la usanza dell'autore, prima gli mandarono a messere Cane, e poi alla imperfetta opera gli ricongiunsono, come si conveniva; et in cotal maniera l'opera in molti anni compilata si vide finita.

Muovono molti, et intra essi alcuni savj uomini, una quistion così fatta, che, conciofossecosachè DANTE fosse in iscienzia solennissimo uomo, perchè a comporre così grande opera e di alta maniera, come la sua Commedia appare, si mosse piuttosto a scrivere in ritmi et in fiorentino idioma, che in versi, come gli altri poeti già fecero. Alla quale si può così rispondere. Avea Dante la sua opera cominciata per versi in questa guisa:

Ultima regna canam fluido contermina mundo
Spiritibus quae lata patent, quae premia solvunt
Pro meritis cuique suis data lege tonantis.

Ma, veggendo egli li liberali studj del tutto essere abbandonati, e massimamente da' Principi, a'quali si soleano le poetiche opere intitolare, e che soleano essere promotori di quelle; et oltre ciò, veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solenni poeti venute in non calere e quasi rifiutate da tutti, estimando meglio non dover avvenirne della sua, mutò consiglio e prese partito di farla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni de' Principi odierni; e, lasciati stare i versi, ne' ritmi la fece che noi veggiamo. Di che seguì un bene, che de' versi non sarebbe seguito, che, senza tor yìa lo esercitare degli ingegni, a' letterati alcuna cagione di

studiare, e a sè acquistò in brevissimo tempo grandissima fama, e maravigliosamente onorò il fiorentino idioma.

Questo libro della Commedia, secondo che ragionano alcuni, intitolò egli a tre solennissimi Italiani. La prima parte di quello, cioè l'Inferno, a Uguccion della Faggiola, il quale allora in Toscana era signor di Pisa. La seconda, cioè il Purgatorio, al marchese Moruello Malaspina. La terza, cioè il Paradiso, a Federigo III. re di Sicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto a messere Cane della Scala ; et io il credo piuttosto, per la maniera che tenne di mandar prima a lui quello che composto avea, che ad alcuno altro.

Compose ancora questo egregio Autore nella venuta di Arrigo VII. imperadore un libro in latina prosa, nel quale, in tre libri distinto, prova al bene esser del mondo dovere essere imperadore, e che Roma di ragione il titolo dello imperio possiede; et ultimamente che l'autorità dello imperio procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti del quale, perciò che usati furono in favore di Lodovico duca di Baviera, contro la Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papa XXII., da messere Beltrando, Cardinale del Poggetto, allora per la Chiesa di Roma Legato in Lombardia, dannato siccome contenente cose cretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun non dovesse. E se un valoroso cavaliere fiorentino, chiamato Pino della Tosa, e messere Ostagio da Polenta, li quali amenduni appresso del Legato eran grandi, non avessero al furor del Legato obviato, egli arebbe nella città di Bologna insieme col libro fatto arder l'ossa di DANTE: se giustamente o no Iddio il sa. Oltre a questi compose il nostro DANTE egloghe assai belle, le quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio. Compose

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