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tiene mai perfettamente, non giunge mai il pensiero a riposare in se stesso? Ma non menò per questo l'uomo ha bisogno di attingervi un principio, che vivifichi tutte le parti del suo essere, a cui possa ricondurre le sue azioni, e in cui, se non sempre e completamente, qualche volta almeno riposi. Il pensiero è per l'uomo il punto da cui tutto parte e in cui tutto ritorna, fonte di virtù, di felicità, d'ogni bene.

C'è un luogo della Politica, nel quale si direbbe che Aristotele si sia proposto di togliere ogni contrasto tra la pratica e la teoria, tra l'azione e il pensiero, tra la vita attiva e la vita contemplativa, e di mostrare, anzi, che la vera vita attiva, se s'intenda bene, è la contemplazione medesima. «Se si deve », dice Aristotele, «riporre la felicità nel bene operare, τὴν εὐδαιμονίαν sumpayias Jereo, vita migliore, e per la comunità civile e per il privato cittadino, sarà la vita pratica, καὶ κοινῇ πάσης πόλεως ἄν εἴη καὶ καθ' ἕκαστον ἄριστος βίος ο πρακτικός. Ma », soggiunge egli tosto, «< non è necessario, come credono alcuni, che la vita pratica si svolga in relazione ad altri, ἀλλὰ τόν πρακτικὸν οὐκ ἀναγκαῖον εἶναι πρὸς ἑτέρους, καθάπερ οἴονταί τινες, e che fra i pensieri quelli soli siano considerati come pratici, che riguardano i risultati dell'azione, οὐδὲ τὰς διανοίας εἶναι μόνας ταύτας πρακτικὰς τὰς τῶν

ἀποβαινόντων χάριν γιγνομένας ἐκ τοῦ πράττειν. Pensieri pratici sono molto più quelle contemplazioni e quei pensieri, che sono fini a loro medesimi e si vogliono in grazia di loro medesimi, ἀλλὰ πολὺ μᾶλλον τὰς αὐτοτελεῖς καὶ τὰς αὐτῶν Evena nai diavońceı. »1) Spiega poi Aristotele come, nelle azioni esteriori, quegli agiscano massimamente che con l'intelligenza e col pensiero le dirigono e ne sono gli ispiratori, quasi architetti che presiedano alla costruzione degli edifici. Così non converrebbe chiamare inattiva una città che vivesse, per così dire, assisa in se stessa, in un pacifico riposo: avrebbe sempre una vita interiore feconda e bella. Dio stesso e l'universo non hanno una vita meravigliosamente bella e attiva, ancorchè alla loro azione interna non si congiunga alcuna attività esteriore? 2)

Si capisce da tutto ciò che la vita contemplativa per Aristotele non s'assolve in un mondo diverso da questo nostro: essa è bensì una vita più che umana, una vita divina, e tuttavia attuabile, fino a un certo punto almeno, nella condizione umana. La ragione, per quanto elemento divino, non è ciò che costituisce in proprio l'uomo,

1) Polit, VII, 3, 5-6, 1325 b.

2) Luogo cit. Cfr., Giuseppe ZUCCANTE, la « Dottrina della felicità nell'Etica di Aristotele » in Saggi filosofici, p. 211-214.

quello da cui deve pigliar norma e forma tutto ciò che all'uomo appartiene? Orbene, il maggiore svolgimento di essa, la speculazione pura, il pensiero puro, la vita contemplativa, in una parola, deve essere pur possibile all'uomo, e, s'intende, in questo nostro mondo sublunare. Aristotele per ciò non ricorre all'immortalità dell'anima e della persona. Il problema dell'immortalità non è neanche toccato nell'Etica. Vi si accenna per verità una volta là dove è detto che i morti pare debbano interessarsi della sorte dei loro cari, e si fa questione se essi partecipino dei beni o dei mali; ma vi si accenna alla sfuggita e come per fare una concessione alle credenze popolari, anzichè per una vera e propria convinzione filosofica dell'autore. ) E, del resto, l'immortalità non può trovar posto nel sistema di Aristotele. Il filosofo, è ben noto, fa distinzione tra intelletto agente, oûs montexós, e intelletto passivo, vous ma‡ntixis, cioè tra un principio che nell'anima umana vivifica e informa, e un altro che viene vivificato e informato; e il primo considera come separato, immisto, immortale, il secondo fa perire con la vita presente. In quale dei due principii consiste la personalità umana? Tutte le controversie del Rinascimento a

1) Eth. Nic., I, 11, 1, e 5-6.

questo proposito, provano che una risposta decisiva non si può dare. Ma, qualunque potesse essere questa risposta, non sarebbe certo favorevole all'immortalità della persona; perocchè, anche dato che la persona consistesse nell'intelletto agente, non si potrebbe però da questo arguire la sua immortalità. Colla vita presente si spegne la ricordanza, lo dice esplicitamente Aristotele; 1) e, spenta la ricordanza, a che cosa si riduce l'immortalià dell'intelletto agente? All' immortalità di un principio astratto, indeterminato, del principio dell'intendere in generale, all'immortalità di un principio che manca di ogni carattere personale, se è vero che la persona è costituita essenzialmente dalla memoria e dalla coscienza.

E nemmeno Dio, in un certo senso, è necessario, nel sistema di Aristotele, all'attuarsi della vita contemplativa, e quindi alla pienezza della felicità e della beatitudine; nel senso, intendo dire, che ne sia causa efficiente, e ne faccia come il premio del bene operare dell'uomo.

È però necessario in un altro senso. Dio, e vedasi specialmente il libro X dell'Etica,

1) De Anima, III, 5, 4. Vedi per tutta questa questione dell'intelletto agente e dell'intelletto passivo De Anima, III, 4, 5, 6. Cfr. Giuseppe ZuccaNTE, « La Dottrina della felicità» ecc., p. 252-253.

è l'ideale a cui si deve mirar di continuo; è l'essere che, attuando in sè la felicità perfetta, la pienezza della vita contemplativa, e avendo in grado eminente l'elemento più nobile che si trovi nell'uomo, la ragione, merita perciò che l'uomo si studi di imitarlo e di innalzarsi fino a lui. L'uomo, secondo Aristotele, giunge alla perfezione propria, alla piena attualità del suo essere, al pieno possesso di sè, quando diventa ragione pura, intelligenza che fa una cosa sola con l'intelligibile, pensiero che pensa se stesso, quando cioè si assimila a Dio, che, appunto, è pensiero di pensiero e non fa che pensare se stesso. E vero, ogni rapporto propriamente morale e religioso è, in Aristotele, interdetto fra Dio e l'uomo; il Dio d'Aristotele non è un Dio personale, è piuttosto un Dio metafisico, press'a poco come il vous d'Anassagora, è puro pensiero. teoretico mancante di volontà; è un

cetto più che una persona. Il Dio d'Aristotele non è il padre degli uomini come in Platone; non è buono, non è giusto, non assicura alla virtù la ricompensa futura, non infligge al vizio e al delitto i castighi meritati; il Dio d'Aristotele è nelle altezze serene, ma fredde della ragione. E tuttavia fra Dio e l'uomo c'è un rapporto strettissimo di finalità, nel sistema d'Aristotele; Dio è il fine che attira tutto a sè,

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