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dispongon l'animo al diletto della poesia. Perchè io voglio, che sappiano e danzar bene, e cavalcare, e armeggiare, e ordinar bene una caccia, o un convito, cose, che il volgo non sa; ma non per questo sapranno punto d' istoria, e di favole; ne potranno intendere quel verso del Petrarca

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Ch' indi per lete 'esser non può sbandita.

non sapendo, che cosa sia lete; e meno quell' altro

Felice Autumedon, felice Tifi.

non sapendo chi fosse ne Autumedonte, ne Tifi; ne altri infiniti luoghi potran comprendere, in cui favole e istorie s'incontrano. Aggiungete a questo, che i poe ti, non astringendosi al parlar comune del popolo, usano bene spesso forme, e maniere di dire, che son loro proprie, ed essi le hanno per belle e leggiadre; ma a quelli, che non sono gran fatto avvezzi di leggere poesie, pajon' aspre e dure, e recano anzi noja, che diletto. Però io non direi mai, che la poesia fosse fatta per piacere alle persone nobili, ed illustri, essendo queste per la maggior parte così poco disposte a sentirne la bellezza. E lo stesso può dirsi anche di quelle, che chiamansi persone colte, e letterate. Che già vedete tra i letterati in che alto luogo seggano i teologi, i metafisici, i leggisti, i quali, per quanto sieno valenti nelle lor professioni, non per ciò sono più de gli altri disposti a gustare le dolcezze della poesia. E letterati pur si chiamano i medici, gli anatomici, i chimici, e già cominciano a venire sotto lo stesso nome anche gli agricoltori, e gl' intendenti di mercatu

ra.

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to

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ra. Or chi non vede, poter tutti costoro essere molto savii e dotti in quelle lor discipline, e acquistar riputazione, e fama appresso gli uomini, senza però saper favole, e senza aver' uso veruno delle forme, e delle maniere de i poeti; del qual uso essendo privi non possono poi accorgersi delle grazie, e de gli ornamenti de' componimenti poetici, e prenderne dilet to; così che molti ne troverete, che niente più sentono la soavità del Petrarca, o d' altro illustre poeta, di quel, che faccia un uom del volgo. Io dunque ne questi pure, che son per altro uomini colti e letterati, o almen per tali si tengono, direi, che fosser quelli, a cui debba la poesia voler piacere, parendomi, che una gran parte di loro ne sieno incapaci; e benchè talvolta applaudano a qualche componimento, e faccian segno, che loro piaccia; non però sentono tut te le bellezze di esso, se egli veramente è bello, ma solo pochissime; e talvolta quelle cose, che pajon lor belle nel componimento, e piacciono; se intendesser le altre, e vedessero, come quelle sono fuor di proposito non più belle parrebbon loro, ne più lor piacerebbono ; e spesse volte ancora gli move a quell' applauso non altro, che il material suono de i versi, e la grazia di chi gli recita.

Per le quali cose, se io dovessi risolvere la questione, amerei dire, che la poesia fosse fatta non già per piacere generalmente a tutti, ne anche a i nobili, o a i letteratì, essendo la maggior parte di questi incapace di quel diletto; ma si a quelli, che sono baste

volmente informati d' istorie, e di favole; e sono usi di legger poeti, tanto che intendono, per così dir, quella lingua; ed hanno naturalmente buon giudizio ; c son facili a quegli affetti, che la poesia d' ordinario vuol movere, come per lo più sono gli uomini onesti e costumati. Io credo dunque, che per questi scli sia fatta la poesia; imperocchè questi soli possono accor. gersi di tutte le bellezze di essa, e trar grandissimo piacere da tutte, laddove gli altri e di poche si accor gono, e poco piacere ne prendono. Con che parmi, che si levi una gran molestia, che spesso soffrono i poeti. Perchè son di quegli, i quali, avendo udito di re, che la poesia è fatta per piacere, e non mettendo in ciò distinzion niuna, se avvenga che qualche poesia loro non piaccia, subito la dannano, come cattiva, dicendo, che essa non ottiene il fin suo, perciocchè loro non piace. Dal quale argomento facilmen te cesserebbono, se pensassero, come essi son mal disposti, e che quella poesia non fu fatta per loro. E questo pensiero potrebbe ritrar molti dal giudicare con tanta fermezza, e dar sentenza sopra le poesie, la cui bellezza essi non son capaci d'intendere. Il che a dir vero è grande incomodo de i poeti; i quali se volessero piacere a tutti, bisogneria, che si spogliassero d' un'infinità d' ornamenti, di cui non tutti possono accorgersi, anzi molti se ne anncjano; e con ciò dispiacessero a gl' intendenti, che se ne accorgono, e ne prendon grandissimo diletto. E meglio è senza dubbio far le poesie più belle, e più ornate per piacer moltis

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simo a questi pochi, che ornarle meno, e spogliarle quasi di ogni grazia, per piacere alcun poco a quei molti; che certo poco piacere sarà sempre quello, che trarranno dalla poesia coloro, che non vi hanno l' a nimo disposto. Io però consiglierei il poeta a comporre i suoi versi per modo, che dovessero grandemente piacere a gl' intendenti, e per quanto far si potesse, dessero qualche diletto anche a i non intendenti; ma non vorrei già, che per piacere alquanto più a questi, si contentasse di piacer meno a quelli; perchè, come ho detto di sopra, il fine precipuo del poeta è di piacere, non a tutti, ma a coloro, che hanno l' animo abbastanza disposto. E vorrei similmente, che quelli, che non hanno l'animo ne dalla natura, ne dall' uso a bastanza disposto, avvenendosi in qualche componi mento, che lor non piaccia, fosser contenti di dire, che esso non piace loro; il che è sempre lecito di di re; e non volesser per ciò persuadersi, che dovesse quello esser cattivo, e lo disprezzassero; anzi qualor vedessero, che quei, che son più versati in poesia, lo tengono in conto, credessero dover quello esser bello, benchè essi quella bellezza non sentano. Così finireb bono di dar noja a poeti, e nel loro giudizio acquisterebbon laude di modestia.

Io non vorrei, Gentilissima Signora Marchesa, a vervi nojata, troppo lungamente intertenendovi sopra la definizione della poesia; pure spero, che mi avrete per escusato se considerar vorrete, che io parlandovi della definizione, vi ho parlato ad un tempo e della Tom. VI.

E

favo

vostra,

favola, e dell' imitazione, e del fine della poesia, cose tutte importantissime a chi voglia sapere alcun poco in quest' arte. E già tanto mi confido nella bontà che io non temerò di aggiungere un' altra cosa sopra le fin quì dette, che pur s' appartiene alla definizione della poesia in qualche modo. Non è da dubitare, che la poesia non possa e non debba giovare a gli uomini, perchè non è cosa al mondo tanto leggiera, che non possa farlo, e potendo farlo, non debba, quando che onesta sia. La tragedia vuol giovare; e la commedia similmente; ed anche l' epopeja. Hanno la stessa ambizione eziandio i lirici. Ora se la poesia dee esser' utile, ed è suo fine il giovare, sembra, che ciò non s' accordi con la definizione addotta, dicendosi, che ella sia un' arte di verseggiare per fine di diletto; perchè secondo una tal definizione pare, che non ab. bia altro fine, che il diletto; ne da ciò può raccogliersi, che debba in essa studiarsi ancora l'utilità. A questa obbiezione, che sarà certamente mossa da alcuni io credo di poter rispondere in due maniere. E prima io voglio, che pensino, che il diletto istesso, ove congiungasi all'onestà, è un bene, ed è una parte non piccola di quella felicità, che può l'uomo sperar di godere in questa vita; e però tutto quello, che porge all' animo un' onesto diletto, qual ch'egli sia, dee per questo istesso mettersi tra le cose utili; se già non vogliamo ridurre ogni cosa ad una vil mercatura, e credere, come fanno gli avari, che solo al mondo sia utile il danajo; il qual però se non serve all' esercizio di

qual

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