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Lin. 1. Amore.... è, che congiugne e unisce l'amante colla persona amata; perocchè Amore, « veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale dell' Anima e della cosa amata: Conv., III, 2; Purg., XVIII, 14.

4. Pittagora dice: « Nell' amistà si fa uno di più. » Ciò l' Allighieri dovette averlo appreso da Tullio, che nel libro degli Ufficj rammenta: Pythagoras ultimum in amicitia putavit, ut unus fiat ex pluribus: De Off., 1, 16.

7. Talvolta è, che l'una delle due cose congiunte torna del tutto nella natura dell' altra, vi si trasmuta, e quindi avviene « che le passioni della persona amata entrano nella persona amante, si che l'amor dell' una si comunica nell'altra. » Ed ecco perchè Dante, preso ch' ei fu dell' amore per la sua onestissima Beatrice, sentivasi come occupato e guidato dai desiderj di lei ad amar il Bene, di là dal qual non è a che s' aspiri: Purg., XXXI, 24.

13. In greco proverbio è detto: «Degli amici esser deono tutte le cose comuni. » Anche questa sentenza, se vogliam credere al Mazzucchelli, il nostro Autore l' ebbe derivata da Cicerone: In Græcorum proverbio est: Amicorum esse communia omnia: De Off., 1, 16.

15. Questa Donna, nominata di sopra nella verace sposizione, in quella cioè allegorica, dove si contiene il Vero, è la Filosofia: Conv., II, 16.

21. Nulla cosa è da odiare, se non per sopravvenimento di malizia, che possa poi verificarsi in essa cosa. Di qui m'avviso che, anco per ciò che si ripete più sotto (1. 26), debba scriversi « la malizia delle cose » (1. 25), e non com' è nella Volgata « le malizie delle cose. »

34. Intra li quali errori uno massimamente io riprendea (biasimava), il quale, dappoichè non solamente è dannoso e pericoloso a coloro che in esso stanno, ma eziandio agli altri che lui riprendono, parto (cerco di rimuovere) da loro e lo condanno, mettendolo in dispregio ed abbominazione. E ben si convien osservare che l'Autore volge or qui la sua intenzione non pure contra quelli che per mala consuetudine stavano in errore sull'umana Nobiltà, ma anche contro a chi per poco intelletto (1. 40) e con lieve sapere, biasimando siffatto errore, riusciva invece a viepiù allargarlo nella pubblica opinione: Canz., st. 2.

39. L'opinione quasi di tutti n'era falsificata e della falsa opinione nasceano i falsi giudicj, ec. E qui pur cade all' uopo di riflettere com' egli incontra, che più volte piega L'opinion corrente in falsa parte, E poi l'affetto l' intelletto lega: Par., XIII, 118.

43. Li buoni erano in villano dispetto tenuti, e li malvagi onorati ed esaltati. Il mondo si confonde e s'attrista, allora che nell' opinione pubblica o dai Potenti della terra, in cambio di promuoversi l'opera migliore, si vien calcando i buoni e sollevando i pravi: Inf., xix, 105.

49. La Filosofia trasmutava un poco i suoi dolci sembianti, quando apparve a Dante piuttosto fiera e disdegnosa (Conv., III, 15), in quanto ch' egli non giugneva ancora ad intenderne le dimostrazioni rispetto alla prima materia degli Elementi, cercando se fosse stata intesa, creata, da Dio, od eterna. Già s'è veduto, come l'Allighieri annoverasse la materia prima tra gli obbietti che abbagliano la nostra mente, nè si lasciano ben discernere: Conv., III, 15.

Ma poi che proseguì in siffatto studio, venne a conchiudere e stabilire che creata si fu la materia o il suggetto, onde son costituiti gli Elementi, terra, acqua, aere e fuoco; e che quella materia prima, e pura potenza, tenne la parte inferiore nell'ordine della Creazione: Par., VII, 54; XXIX, 22, 36, 52. Il perchè non stetti punto dubbioso ad interpretare il vocabolo «< intesa » per « creata, » come già supposero gli E. M., e si può anche dedurre da luoghi consimili: Conv., IV, 5, 25. La Creazione in effetto non è, che un atto del primo Intelletto e della prima Volontà, vale a dire, un atto mosso dall' intenzione del primo Agente, che è Dio.

51. Per la qual cosa un poco da frequentare il suo aspetto mi sostenni, quasi nella sua assenza dimorando, entrai a riguardar col pensiero il difetto umano intorno al detto errore. Ove pongasi mente che le parole « un poco da, ec., » qui dipendono dal « conciofossecosachè » (1.48), si conoscerà facilmente che « per la qual cosa » che si fa loro precedere nella lezione Volgata, deve anzi esser posto a reggere il membro seguente « quasi nella sua assenza, ec. >> Siffattamente riordinato il costrutto, la sentenza dell'Autore si rende chiara e precisa.

52. Un poco mi sostenni (mi son trattenuto: Inf., XXVI, 72) da frequentare il suo aspetto, quello della Filosofia; rimasi cioè alquanto tempo dal continuo riguardare ch'io facevo negli occhi di lei, per apprenderne le dimostrazioni della Verità desiderata.

56. Per istinguere questo errore, che tanti amici le toglie, perchè anch'essa la Filosofia vuole ne' suoi amici verace Nobiltà d'animo. L'antica lezione « per distinguere » fu accolta dagli E. M., benchè fossero d'avviso che forse era da leggere « per distruggere, » ovvero con più conformità ai letterali elementi del testo «per istinguere. » E quindi io mi vidi condotto a volgere in certezza questo dubbio, al pensiero che l'Allighieri con tutta franchezza d'animo s' accinge di poi a ferire nel petto le falsate opinioni, quelle per terra versando, eccitato vivamente dal desiderio di spegnerle: Conv., IV, 9.

62. Siccome per la conoscenza del suo Testo, alla sposizione del quale ora s'intende, veder si potrà. Giacchè quivi si tratta della propria conoscenza della verace Nobiltà (1. 61), la quale conoscenza deve appunto risultare dalla sentenza del Testo poi dichiarata nella sposizione, certo che, in cambio di « per la conoscenza, » bisogna leggere «per la sentenza: » Conv., IV, 2.

71. Per mia Donna intendo sempre.... quella luce virtuosissima Filosofia, i cui raggi fanno i fiori rinfronzire e fruttificare la verace degli uomini Nobiltà. Basta pur che altri consideri il modo con che son collegate queste parole occorrenti nella Volgata, e discernerà prontamente come alcune sieno fuori del luogo loro, solo perchè il nome «< Filosofia » (1. 73) non s'è posto dinanzi alle parole dichiarative « quella luce virtuosissima,» aggiugnendovi inoltre l'articolo consueto. Nè si creda ch'io poi voglia presumere d'aggiustare a mio talento.i periodi d'un Libro tanto rispettabile per ogni risguardo. La sola mia cura, il maggior mio vanto non aspira ad altro, che a poter rendere a Dante ciò che gli s'appartiene per sicura e vendicata ragione. Ben dobbiamo riconoscere e ammirare in tutto questo discorso una così rigida precisione di vocaboli e un si compiuto ordine d'idee, che il dettato ne riesce limpido e conveniente, e la nostra Prosa filosofica già vi apparisce splendida nel suo aspetto migliore.

75. Pienamente. Quest' avverbio, che nella Volgata suole unirsi a «< intende » (1. 76), l'ho ricongiunto a «trattare, » cui spetta senza alcun dubbio.

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Lin. 11. Domando ajutorio a quella cosa che più ajutare mi può, cioè alla Verità. Anche nel Poema s'incontra la voce « ajutorio, » che altri potrebbe far credere vi fosse obbligata dalla rima: Omai dintorno a questo consistorio Puoi contemplare assai, se le parole Mie son ricolte senz'altro ajutorio: Par., XXIX, 67.

16. A me convien lasciare le dolci rime d' Amore, le quali io solea cercare ne' miei pensieri. L' Allighieri, nell'accennare specialmente alle poesie della Vita Nuova, cosi principia un suo Sonetto: O dolci Rime, che parlando andate Della Donna gentil che l'altre onora: Canzoniere, pag. 371. Ed appunto ei si piacque d'essere riconosciuto come Colui che fuori trasse le nuove Rime, e potè divenire maestro del dolce Stile nuovo: 1. 31; Purg., xxiv, 49, 57.

25. Ma, come altra volta, dico che l'apparenza si discordava dalla Verità. Qui si toccano due cose distinte : l'una, quali apparvero a Dante gli atti della amata Donna; e l' altra, come quest' apparenza, al modo che già gli avvenne, si discordava dalla Verità: Conv., III, 15. Quindi per necessario legame del periodo e di tutto il discorso, non lasciai di premettere la particella «ma» a «come» (1. 25), sebbene manchi in tutti i codici e nelle stampe.

27. Ivi sufficientemente veder si può. In cambio di « qui, che s'incontra nella Volgata, ho prescelto di scrivere « ivi,» secondo che parve al Pederzini, e si richiede dall' Autore, cui piacque di richiamarci la mente alla citazione già fatta: 1. 24.

30. Appresso quando dico: E poichè tempo mi par d'aspettare: dico, siccome detto è, questo che trattare intendo. Sebben questa sia la lezione comune e già un po'racconciata da quello ch'era in antico, mi sembra tuttavia molto scorretta. Nè certo poteva egli, il diligente Maestro, dopo « quando dico» ripetere « dico, siccome detto è » (1. 31), laddove gli bisognava invece dichiarare il già detto, cioè « quello che era di sua intenzione a trattare: » 1. 11. Ed appunto dichiaro » dev'essere la verace parola al luogo indicato, com' ivi pur deve leggersi «quello » e non « questo. »

31. E qui non è da trapassare con piè secco (a piedi asciutti, senza toccarne almeno qualche cosa a schiarimento) ciò che si dice in quelle parole « di tempo aspettare. » Le stampe, non altrimenti che i codici, leggono «< in tempo aspettare; » ma la nostra lezione è conforme alla verità del Testo che si vuol esporre: 1. 30, 59.

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