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viaggi, per tutto notando i costumi e le leggi dei popoli, ammirando le bellezze delle scene della natura e i monumenti. Così visitò il Belgio, la Svizzera, la Francia, la Germania, la Spagna, l'Italia, e navigò fino alle coste dell'Inghilterra. Nel 1336 si avvia alla volta di Roma che sin da fanciullo era la meta dei suoi desiderii, e vi è splendidamente accolto da Stefano Colonna che lo ebbe sempre caro come un figlio. Ma eccolo di nuovo ad Avignone. Della quale città presto annoiato, e desideroso di una vita più tranquilla, scopre, a 15 miglia da Avignone, la solitaria ed amena Valchiusa, e vi trasporta i suoi libri e vi si rifugia spesso, e colà medita e scrive gran parte delle sue opere.

§ 3. Già la sua fama di poeta e di letterato andava straordinariamente crescendo in Italia e fuori, per le opere latine e specialmente per il poema De Africa, a cui aveva posto mano nel 1339, e di cui varie parti erano già note a molti prima che fosse condotto a termine. Papi, principi e popoli se lo disputavano; da essi era adoperato come ambasciatore e come arbitro nei loro interessi, ed egli ne ritraeva splendidi doni, e dignità ecclesiastiche che gli procurarono in breve un vivere agiato.

Nell'agosto dell'anno 1340 ecco giungergli a Valchiusa, nello stesso giorno, due lettere, l'una dal Senato Romano, l'altra dal cancelliere dell'Università di Parigi, colle quali facevangli invito a ricevere la corona poetica, quegli a Roma, questi a Parigi. « Preso di giovanile baldanza (così nella lettera ai Posteri), e degno veramente io stimandomi dell'onore onde degno sì fatti uomini mi riputavano..... stetti alcun poco infra due, pensando quale di quegli inviti seguire si convenisse. E chiestone consiglio al cardinale Giovanni Colonna..... m'attenni al suo parere, che fu di preferire ad ogni altra la veneranda autorità di Roma. » Se non che, non acquietandosi al solo suo giudizio, nè a quello di coloro che gli avevano offerto un tanto onore, volle recarsi a Napoli per

esservi esaminato da re Roberto, principe che ostentava protezione verso i letterati e troppo dal Petrarca stimato e lodato. Accolto con regale magnificenza, fu per tre giorni di seguito esaminato dall'Angioino, che infine lo proclamò degno della laurea poetica. Nel giorno di Pasqua, agli 8 di aprile dell'anno 1341, con solennissima pompa, e fra gli evviva del popolo plaudente, Francesco Petrarca riceveva in Campidoglio, per le mani del senatore romano Orso conte dell'Anguillara, la corona d'alloro, come grande storico e poeta.

Dopo essersi fermato per qualche tempo a Parma, dove ricevette i favori dei signori di Correggio, e dove nella vicina Selvapiana gli parve di aver trovato un'altra Valchiusa, rivalicò le Alpi, essendo mandato oratore del popolo romano a Clemente VI (1).

Ma la febbre dei viaggi lo rimoveva presto dalla solitudine di Valchiusa, ed eccolo a Napoli, a Roma, a Bologna, a Verona, e di nuovo a Parma, ove dimorò ad intervalli tre anni, e dove nel 1348 gli giunse inaspettata la notizia della morte di Laura. Da questo tempo cominciò ad avere più stabili dimore, benchè non cessasse le sue peregrinazioni in Italia e fuori, incaricato spesso di uffizi diplomatici. Nel 1350, recandosi a Roma pel Giubileo, fu accolto con festa in Firenze che visitava per la prima volta ed ospitato dal Boccaccio. Visitò pure la sua nativa Arezzo, dove gli fu mostrata la casa dei suoi maggiori. I Fiorentini gli restituirono, due anni dopo, i beni paterni, e per mezzo del Boccaccio lo chiamarono ad insegnare nel nuovo Studio, od Università, carica ch'egli rifiutò.

§ 4. Quasi dieci anni si fermò a Milano presso i Visconti, e in una villa lontana tre miglia dalla città, è che egli chiamò Linterno, in memoria del luogo dove si era ritirato negli ultimi anni di sua vita il suo prediletto eroe Scipione

(1) Qualcuno mette in dubbio quest'ambasceria.

l'Africano; dimora interrotta da alcune importanti legazioni a Venezia e a Parigi, commessegli dai suoi protettori Giovanni arcivescovo e Galeazzo Visconti. Nel 1370, essendo il papa Urbano V ritornato a Roma, ed avendo manifestato il desiderio di vedere il Petrarca, benchè vecchio e malaticcio egli si mise in viaggio, ma giunto a Ferrara fu colto da grave infermità, e ritornato a Padova, si ritirò nel vicino villaggio di Arquà sui colli Euganei. Qui si fabbricò una casa non grande, ma dilettosa e modesta, e visse gli ultimi anni infermo del corpo, ma tranquillo e sereno, intento ai suoi diletti studi, circondato dall'affetto della sua figliuola Francesca e dai suoi nipotini (1). Da questa solitudine si mosse solo una volta per accompagnare a Venezia Francesco di Carrara. Nel suo testamento, fatto nel 1370, istituiva erede suo genero Francesco da Brossano, legava al Carrarese una immagine della Vergine dipinta da Giotto, e disponeva che si pagassero al suo carissimo Boccaccio cinquanta fiorini d'oro, perchè si comprasse una veste che lo difendesse dal freddo nelle veglie invernali, e si vergognava di lasciar sì tenue somma ad un uomo così insigne.

La mattina del 10 luglio 1374 Francesco Petrarca fu trovato morto nella sua biblioteca in Arquà, col capo appoggiato sopra un libro. Il Signore di Carrara gli fece rendere degni onori funebri, ai quali accorsero da molte parti d'Italia illustri personaggi. Le sue ceneri riposano ad Arquà in una tomba erettagli dal suo genero Francesco da Brossano, e restaurata nel 1843 per cura di Carlo Leoni, patrizio padovano.

(1) Il Petrarca ebbe da ignota donna due figli: Giovanni, che mori giovane di 24 anni; e Francesca, che andò moglie a Franceschino di Amicolo da Brossano, e che ebbe due figli: Francesco ed Eletta, teneramente amati dal loro avo. A Francesco, morto bambino, fece il nostro poeta erigere un sepolcro di marmo presso Pavia, e ne scrisse egli stesso l'epitafio in distici latini.

§ 5. Il Petrarca ebbe elevata statura, naso prominente e largo alla base, occhi vivaci e di vista che si serbò acutissima per lungo tempo. Non bello, ma tale che nel fior degli anni poteva piacere: le sopracciglia ben rialzate e gli zigomi sporgenti gli davano un'impronta virile che contrastava colla delicatezza femminile dei lineamenti. Robusto e muscoloso, si conservò sanissimo fino alla vecchiaia.

Riguardo poi al carattere morale, così il poeta si ritrae nella lettera ai Posteri: « Fui delle ricchezze solenne dispregiatore, non perchè bello non mi paresse il possederle, ma sì perchè abborrii dai travagli e dalle cure che son di quelle compagne inseparabili. Avverso alle lautezze dei banchetti, mantenni di tenue vitto e di volgari cibi la vita più lietamente, che tra le leccornie e le ghiottonerie non soglion fare i successori di Apicio..... Ma nulla ebbi di più caro del convivare cogli amici: il loro arrivo fu sempre una festa per me: e il non avere compagno tavola mi spiacque sempre. Dalla ostentazione costantemente mi tenni lontano, non solo perchè cattiva in sè stessa e contraria all'umiltà, ma perchè affannosa e nemica riesce al vivere riposato e tranquillo. Di altri amori non mi accesi che di un solo nella mia giovinezza: e quello onesto a un tempo e ardentissimo, del quale più lungo ancora che non fu sarebbe stato il travaglio, se l'ardore che già cominciava a venir meno, acerba ma opportuna la morte non avesse estinto. De' voluttuosi piaceri ben vorrei dirmi al tutto inesperto: ma poichè questo senza mentire al vero io non posso, mi terrò contento ad affermare, che..... dal fondo dell'anima ne conobbi e n'esecrai la bassezza..... Conobbi in altri la superbia, in me stesso non mai, e stato sempre dappoco, mi tenni pur da meno di quello che fui. Feci per ira talvolta male a me stesso; ad altri non mai. Delle onorevoli amicizie avidissimo, ne fui cultore sempre fedele, e certo di dire il vero me ne faccio vanto (1).

(1) I più teneri e fidi amici del Petrarca furono Stefano Colonna

Sdegnoso, irritabile, dimenticai facilmente le ingiurie, dei benefizi la memoria mai non deposi..... I più grandi monarchi dell'età mia m'ebbero in grazia, e fecero a gara per trarmi a loro, nè so perchè. Questo so che alcuni di loro parevan piuttosto essere favoriti della mia, che non favorirmi della loro dimestichezza: sì che dell'alto loro grado io molti vantaggi, ma nessun fastidio giammai ebbi ritratto. Tanto per altro in me fu forte l'amore della mia libertà, che da chiunque di loro avesse nome di avversarla mi tenni studiosamente lontano. Retto e aggiustato meglio che non acuto ebbi l'ingegno, acconcio ad ogni buona disciplina, ma alla morale filosofia e all'arte poetica massimamente disposto. Questa però coll'andar degli anni posi in disparte, tutto piacendomi delle sacre lettere, nelle quali trovai riposte dolcezze tenute a vile insino allora, nè degli studi poetici ad altro che a ricreamento dell'animo più mi occupai. »

§ 6. A queste parole del Petrarca, sulla cui sincerità non c'è da dubitare, è necessario aggiungere alcune osservazioni. Se noi guardiamo al di fuori, nulla gli mancò per essere felice. Nessuno più di lui ammirato e festeggiato. Papi, imperatori, principi e città, tutti andarono a gara nel tributargli ogni sorta di onori. Benedetto XII gli conferì un canonicato a Lombez, e altri canonicati ottenne a Parma, Padova e Modena. Cinque volte gli fu offerto l'uffizio di Segretario Apostolico, sempre rifiutato. Col re Roberto di Napoli, col

il seniore, Stefano il giovane, il cardinale Giovanni e Giacomo vescovo di Lombez, Lello di Stefano (Lelio), Ludovico da Campinia (che per gravità di costumi chiamò Socrate) e il Boccaccio. Fu osservato che il Petrarca intendeva l'amicizia alla maniera antica, e specialmente me Cicerone. Fu però sempre sentimento vivo e sincero e talvolta così fervido che le sue espansioni acquistavano una certa tenerezza femminile e il tono quasi dell'amore. Vedi ad esempio la lettera 4a (al Barbato) del libro XXII delle Familiari.

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