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l'imperatore Carlo IV, con Benedetto XII, con Clemente VI amichevolmente corrispondeva. Ogni principe lo vuole alla sua corte, ogni città lo vuole nel suo seno. Francesco da Carrara muove ad incontrarlo fino alle porte di Padova, Giovanni Visconti lo bacia in volto e lo manda ambasciatore a Venezia, e qui in pubblico spettacolo siede alla destra del doge Lorenzo Celso. Galeazzo II l'ha al suo fianco nel solenne ingresso in Milano del cardinale Egidio d'Albornoz, e, pericolando il poeta di essere gettato da cavallo, lo soccorre. Di Bernabò Visconti tiene al fonte battesimale il figlio Marco. Re Roberto gli dona una veste regale e manda a Roma due suoi legati che assistano per lui alla incoronazione. Il gran Siniscalco Nicola Acciaiuoli lo visita a Milano nella sua biblioteca, e, scoperto il capo, e poco men che prostrato gli si fa innanzi « quale in tempio ad Apollo o alle Muse si curverebbe un divoto allievo di Parnaso. » Andando a Roma, vengono fino a Capranica ad incontrarlo Giacomo e Stefano Colonna. Galeazzo II lo manda ambasciatore a Carlo IV, il quale poi lo invita a Mantova e lo vuole con sè nel viaggio da Milano a Piacenza, lo regala di una coppa d'oro e lo elegge conte palatino. Clemente VI lo manda ambasciatore alla regina Giovanna di Napoli che lo nomina suo cappellano domestico. Quattro Cardinali lo consultano sul governo da darsi alla città di Roma. Altre innumerevoli dimostrazioni riceve da Luigi Gonzaga di Mantova, da Azzo da Correggio, da Paolo Malatesta e da altri signori italiani. Questo entusiasmo si era propagato anche nel popolo. Un vecchio cieco perugino, maestro di grammatica a Pontremoli, desideroso di conoscere il grande poeta, appoggiato alle spalle di un giovanetto, va a Napoli, ma trovatolo partito, si rimette in via, deliberato di andarlo a cercare fin nelle Indie; e corre di città in città dietro di lui, valica nel cuor dell'inverno l'Appennino e lo trova finalmente a Parma. « E (sono parole del Petrarca) baciò questa testa da cui pensate, e questa mano da cui scritte furono le cose ond' egli diceva aver preso diletto

ineffabile..... Per tre giorni continui non mi si staccò mai dal fianco. » Cede alle istanze di Enrico Capra, orafo di Bergamo, il quale lo pregava con lagrime e sospiri di visitare la casa sua e di farlo così « almen felice per un giorno e glorioso per tutti i secoli. » Da costui è accolto e ospitato come un re; e il povero orafo è preso da tanta letizia, che sembra impazzire. Non ebbe quasi nemico; nessuno dei contemporanei gli disputò il campo della dottrina e dell'arte poetica: niuna invidia venne a gettare la più piccola ombra sulla fulgida stella della sua gloria: nessuno insomma pare che dovesse essere più fortunato. Eppure non fu così. Tutta questa gloria non valse a renderlo felice. Dall'esame delle vicende della vita del poeta, come pure da quello delle sue opere, risulta che il fondo del suo carattere fu una perpetua contraddizione, un volere e disvolere, un dibattersi continuo fra opposti sentimenti, una continua irrequietudine che gli amareggiò la vita intiera. Egli cerca gli onori, si compiace di parlarne, e della sua fama mena vanto: ed è certo che, almeno coi voti e colle preghiere, sollecitò egli stesso la laurea poetica in Campidoglio. Eppure altre volte accusa la propria fama di togliergli la quiete, e dice che essa è la causa di tutte le sue pene ed amarezze; disprezza le grandezze del mondo, fugge le città tumultuose e corrotte, e si ritira nella solitudine di Valchiusa o di Selvapiana o di Arquà, dai quali luoghi lo toglie poi con grande facilità un invito di qualche principe. Si dimostra disprezzatore delle ricchezze ed amante della povertà: ma accetta un'infinità di doni e canonicati e fa un testamento che lo rivela ricco. Il suo orgoglio gli fa scrivere la lettera ai Posteri; spera che la sua fama si spanderà in ogni luogo: manda a Carlo IV il libro De viris illustribus in ricompensa delle virtù dell'imperatore, e scrive una lettera a Francesco Carrara per ricompensarlo dei benefizi ricevuti. Ma poi dice che il suo nome è oscuro, che è un omicciattolo tardo d'ingegno, e prega gli amici di non avere a schifo la rozzezza del suo

stile, e paragona i suoi scritti a donna deforme. Vuol essere stoico, ed opporre la forza dell'animo all'impeto della fortuna; ma in verità è poco coraggioso, debole d'animo, atto a confortare gli altri, ma non sè stesso. La sua natura lo porta a piangere e a lamentarsi: alla vita gli occorrono molti bisogni; nulla lo contenta, e da tutto trae sorgente d'infelicità: fastidito della vita, desidera la morte; è sospettoso, insofferente di censori e di nemici. Il suo stato irrequieto non lo lascia riposare a lungo in uno stesso luogo, ed egli viaggia di continuo, cercando quasi di fuggire a sè stesso, ma portando per tutto con sè il suo tormento. In qualunque istante della sua vita noi lo troviamo sempre incontentabile, diviso fra desiderii diversi, costante solo nell'incostanza (1).

Ma se il Petrarca non ha quella fortezza e grandezza d'animo che tanto si ammira in Dante, non cessa però di essere un carattere nobile e generoso. Egli ebbe dalla natura una squisita sensibilità alla quale dovette in gran parte le infinite amaritudini della sua vita, ma anche la gloria di poeta delle anime gentili e melanconiche; sensibilità che gli suscitò i più alti entusiasmi del buono e del bello, e che gli accese nel cuore i più caldi e sinceri affetti per l'arte classica, per Roma, per l'Italia, per la religione, per Laura. In lui noi considereremo particolarmente i quattro grandi sentimenti che si riflettono nelle sue opere, cioè:

Il sentimento dell'antichità;

Il sentimento religioso;
Il sentimento politico;

Il sentimento amoroso.

(1) Vedi A. BARTOLI, St. delle Lett. It., vol. VII, cap. I.

CAPITOLO II.

Il sentimento dell'antichità.

Amore del Petrarca per gli studi classici.

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Sue opere latine: De Africa, Le Lettere. Opere geografiche e storiche. Opere filosofiche. Il latino del Petrarca.

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§ 7. Erano i tempi in cui la società, scioltasi ormai dalle nebbie dell'ignoranza medioevale, cercava di attingere nuove forze dalla mirabile civiltà greca e romana. Di questo entusiasmo per l'antico, che giunse poi al massimo grado nel secolo seguente, tanto da far dimenticare quasi affatto la lingua volgare, fu come precursore il Petrarca. Così egli dice nella sua lettera ai Posteri: « Piacquemi sopra ogni altro lo studio dell'antichità; dappoichè la presente età nostra ebbi io sempre per tal modo in fastidio, che s'egli non fosse l'amore de' miei cari, in tutt'altro tempo da questo esser nato io vorrei, del quale cerco a tutt'uomo di farmi dimentico, e vivo coll'animo in mezzo agli antichi. » In fatti fu vivissimo in lui, come pure nell'amico Boccaccio, questo sentimento. Dicesi che ancora fanciullo leggesse con gran diletto Cicerone senza capirlo, attirato dal suono della frase. Nessuno dei contemporanei fu più di lui dotto nel latino: Cicerone, Virgilio, Seneca erano i suoi autori prediletti. Di codici greci e latini fu cercatore infaticabile. Ai principi, agli amici, ai monaci scriveva raccomandando di cercare per tutto libri antichi; ed egli stesso frugava negli archivi, copiava di sua mano i codici, correggendone i grossolani errori degli amanuensi. Ebbe la fortuna di scoprire le Istituzioni di Quintiliano, le Lettere e alcune Orazioni di Cicerone, del quale scoperse pure il libro Della Gloria che andò poi di nuovo perduto. Il libro di Omero possedeva nella lingua originale,

essendogli stato regalato da Niccola Sigero; e lo teneva prezioso come una reliquia, benchè questa lingua non conoscesse tanto da poter leggere un libro nel testo greco (1). Dei poemi omerici procurò a sue spese la prima traduzione in latino fatta da Leonzio Pilato.

§ 8. Tutto compreso della splendida letteratura classica, volle imitarne le bellezze, e disprezzando la lingua volgare, tutto intese nei suoi scritti a raggiungere quell' ideale di perfezione a cui erano giunti i latini scrittori. Tranne il Canzoniere, tutte le opere del Petrarca furono scritte in latino; in esse egli trasfuse la storia, la filosofia, la poesia dei nostri classici, mostrando un' erudizione ed un gusto straordinari; ad esse egli specialmente dovette la sua fama fra i contemporanei e l'onore del trionfo in Campidoglio. Sono numerosissime e di svariati argomenti. Ecco le principali:

In poesia:

1° De Africa, l'opera più cara al Petrarca e ai contemporanei, intorno alla quale si affaticò maggiormente e da cui sperava l'immortalità. È un poema in IX libri, scritto fra il 1339 e il 1341 e dedicato a re Roberto di Napoli. Fra il quarto e il quinto libro vi è una lacuna, e non si sa la cagione, nè se manchi un libro o più. Il poeta prende l'argomento dalla 2a guerra punica, uno dei fatti più gloriosi della Romana Repubblica, e celebra le imprese di Scipione

(1) II Petrarca aveva cominciato a studiare il greco sotto Barlaam, greco di origine e nato in Calabria, il quale era venuto in Avignone come ambasciatore dell'Imperatore d'Oriente al Papa. Ma Barlaam partì dopo pochi mesi, e il Petrarca dovette interrompere i suoi studi. Nella lettera a Niccola Sigero in cui lo ringrazia del libro, egli scrive: << Il tuo Omero sta presso di me come muto, o per meglio dire, io sono presso di lui come sordo. Pure del vederlo mi godo, e soventi volte abbracciandolo, sospiro e dico: Oh! quanto, o grande, è di ascoltarti in me il desio! >>

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