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Più interessante è il Dialogo terzo, perchè vi si parla dell'amore del Petrarca per Laura e per la Gloria. Qui specialmente vediamo l'amante alle prese col misticismo. Dai rimproveri di S. Agostino, che gli dice essere l'amor suo per Laura estrema insania, egli si difende, protestando che non arde per una turpe donna, ma per una donna nobile ed onesta; ed aggiunge: « Se in questo erro, volentieri erro, nè voglio che mentre vivo mi sia tolto questo errore, del quale tanto mi diletto.... Sai tu che la mente di Laura, sgombra di ogni terrena cura, arde soltanto di celesti desiderî? Sai tu che nel suo aspetto risplende la divina bellezza? che i suoi costumi sono un modello di perfetta onestà? che nè la sua voce celeste, nè l'amoroso suo sguardo, nè il leggiadro portamento sono cose mortali ?... Te chiamo in testimonio, o Verità qui presente, che nulla mai di turpe, nulla mai di osceno ci fu nel mio amore, nulla di riprensibile, tranne l'eccesso. Se mirar si potesse il mio affetto, come si mira il viso di Laura, si vedrebbe che quello è puro, è immacolato al par di questo. Dirò di più: debbo a Laura tutto ciò che sono; salito non sarei in qualche fama, s'ella non avesse fatto germogliare con nobilissimi affetti quei semi di virtù che la natura aveva sparsi nel mio petto; ella ritrasse il giovanile mio animo da ogni turpitudine, e mi diede ali da volar sopra il cielo. » Ma S. Agostino lo confonde e lo persuade ch'egli ha pervertito l'ordine, amando il Creatore per la creatura, mentre si deve amare questa per quello, e che non avrebbe mai amato Laura, se essa non fosse stata bella; pertanto conclude che il suo amore è turpe ed è cagione della sua vita tormentosa e lo allontana sempre più da Dio.

2o De remediis utriusque fortuna. Dialoghi dedicati ad Azzo da Correggio. Nel Libro I si dimostra la vanità dei beni di questa terra; nel II come possano le sventure essere dalla ragione umana convertite in beni. Libro famoso nel Medio Evo e tradotto in parecchie lingue.

3o De Vita solitaria. Lungo trattato che ha una intonazione triste e in cui si dimostra una filosofia nemica degli uomini. L'autore afferma che meglio sarebbe per l'uomo il vivere nelle caverne colle bestie feroci; celebra le lodi della solitudine e cita esempi di solitari famosi, cominciando da Adamo, il quale, finchè fu solo, fu felice, e diventò infeli cissimo appena ebbe una compagna.

4° De Ocio religiosorum. Ha lo stesso carattere ascetico del precedente. Pare che questi trattati fossero scritti nel tempo della Quaresima come esercizio di pietà.

§ 11. Ma questo esaltamento mistico del Petrarca si rovesciava qualche volta tutto al di fuor di lui, e dava luogo, non più a vane grida di dolore sulle umane miserie, ma a parole di nobile e fiero sdegno contro la Corte papale d'Avignone. Come sincero Cristiano desiderava ardentissimamente che fossero corretti i costumi della Chiesa, e che si ritornasse all'antica semplicità e morale evangelica. Essendo vissuto a lungo in Avignone, ebbe campo di conoscere l'immensa corruzione di quella Corte; e di tutte queste laidezze fece una orribile pittura e satira sanguinosa nelle Epistolæ e in qualche egloga. Egli chiama Avignone la Babilonia occidentale, luogo dove si raccolgono tutte le nequizie, e donde esce un puzzo che ammorba il mondo. Là nulla v'è di santo, tutto è menzogna, inganno, perfidia, empietà, impudicizia. L'ignominiosa e sozza vita di Benedetto XII, di Clemente VI e dei prelati di Avignone è dipinta nelle Egloghe con colori veramente infernali. Le stesse cose si ripetono nei tre sonetti del Canzoniere:

Fiamma del ciel sulle tue treccie piova,

Fontana di dolore, albergo d'ira,

L'avara Babilonia ha colmo il sacco.

Era però il Petrarca ben lungi dal combattere il Papato come istituzione, ma solo, come Dante, voleva che si tornasse alla santità antica di costumi. Ma, secondo lui, l'unico mezzo per compiere la desiderata riforma era che la Sede pontificia si restituisse a Roma. Qui il Petrarca non era soltanto mistico, ma Italiano; Avignone rubava all'Italia la sua gloria e la sua grandezza. E come l'Alighieri, esso riprovava il dominio temporale dei papi e la donazione di Costantino; e voleva che Roma fosse ad un tempo la sede del Papa e dell'Imperatore. Il ritorno del Papa a Roma fu sempre fervidissimo voto del Petrarca; e poichè egli credeva che i cardinali fossero quelli che più tenacemente si ostinavano a trattenerlo in Avignone, così scagliò anche contro di loro le sue invettive. Egli poi non cessava di sollecitar questo ritorno, scrivendo bellissime e calde lettere di consigli e di severi rimproveri ai papi. Così a Benedetto XII dirigeva un'Epistola poetica in cui Roma personificata in una donna, si lamenta di essere strappata dal caro marito e ricorda l'antica gloria e l'attuale miseria; altre lettere scrisse a Clemente VI e ad Urbano V, dimostrando sempre una sincerità e un'arditezza di linguaggio ch'egli traeva dal vivo sentimento della religione e della patria. Ma le sue parole suonarono al deserto. Il povero poeta scendeva nella tomba senza che il suo ardente voto fosse esaudito (1).

(1) Urbano V ricondusse nel 1367 la Sede papale a Roma, ma ritornò ad Avignone nel 1370. Il ritorno definitivo avvenne solo con Gregorio XI nel 1377.

Amor patrio del Petrarca.

CAPITOLO IV.

Il sentimento politico.

La canzone Italia mia. Idee politiche del Petrarca.
La canzone Spirto gentil. Il Petrarca e l'Impero.

Il Petrarca e Cola di Rienzi.

§ 12. Le poche poesie politiche e i molti passi delle opere latine del Petrarca ci dimostrano quanto grande fosse l'amor suo per la patria, e quanto sanguinasse il suo cuore per l'infelice stato di lei. Chiama l'Italia la parte più bella e famosa del mondo, la sede dell' ingegno, delle arti, delle scienze; la saluta commosso quando la rivede dalla cima del monte Gebenna:

Salve, chara Deo tellus sanctissima, salve,
Tellus tuta bonis, tellus metuenda superbis,
Tellus nobilibus multum generosior oris,
Fertilior cunctis, terra formosior omni (1);

e dice che sotto la paterna terra gli sarà dolce il dormire. L'unica cosa di bene che manca a questa terra fortunata è la pace. La sua anima sensibilissima era straziata dal miserando spettacolo delle discordie e delle guerre fratricide che ferivano di piaghe mortali la regina del mondo. In molti luoghi delle Familiari deplora le divisioni dei Principi italiani e grida specialmente contro il costume delle milizie straniere mercenarie che sono la rovina d'Italia. Ai Genovesi e ai Veneziani dice che devono rammentarsi di essere Italiani e che abborrendo dalla guerra fraterna, devono rivolgere le armi contro gli stranieri. Al doge Andrea Dandolo scrive: « E non vorremo noi dunque ristarci mai dal chie

(1) Epistola metrica Ad Italiam.

dere aiuto ai barbari, a danno pubblico ed a sterminio della patria? Fino a quando assolderemo chi ci sgozzi? Oh! il dirò pure ad alta voce questo che io sento: Fra gli innumerevoli errori dei mortali, non darsi errore più grosso del nostro, che Italiani essendo, tante diligenze e tant'oro non rifiniamo di spendere per procacciarci i distruttori d'Italia... Tali sono i venturieri che a vile stipendio traggon la vita miseranda e calamitosa, i quali a buon diritto dalla pace, nella quale sta per essi la fame, abborrendo, simili ai lupi e agli avoltoi, delle stragi si piacciono e dei cadaveri. E di coteste belve vorrai tu andare a verso, che delle carni e delle spoglie degli uccisi son d'un modo famelici, ed hanno a un tempo sete d'oro e di sangue? Deh! non voler permettere che la fiorentissima repubblica alla tua custodia affidata, e tutta questa ricca e bellissima parte d'Italia, che dall'Alpi all'Appennino si distende, fatta sia preda di stranieri famelici lupi, fra i quali e noi, come soglio io dir sempre, provvidamente natura aveva posto schermo le Alpi!» (1).

La sua canzone politica:

Italia mia, benchè il parlar sia indarno,

è, per comune consenso, una delle più belle poesie che l'affetto patrio abbia mai ispirato. In quale occasione sia stata scritta, sono discordi i critici. Generalmente era riferita al 1327-28 quando venne in Italia Lodovico il Bavaro; ma più sode ragioni inducono a credere che essa fosse composta più tardi, o in occasione della guerra combattuta intorno a Parma nell'inverno del 1344-45, come sostiene il Carducci, o verso il 1370 come opinano il D'Ancona e il Bartoli. Tutti però sono d'accordo nell'esaltare le virtù liriche e civili di questa canzone (2). Egli non potendo far altro, vuol sollevare una

(1) De Rebus fam. XVIII, 16.

(2) Ecco quello che su di essa scrive il Mezières, uno degli ultimi storici del Petrarca: « Fuori i barbari! ecco quello ch'egli ripete, ecco quello che ripetono con lui, da secoli, i patrioti italiani, e i papi,

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