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voce di compianto per i mali d'Italia, e si rivolge ai Signori italiani dimostrando come le milizie mercenarie siano una perenne invasione barbarica. Ciò è un volere da noi stessi il nostro danno; ciò è contro natura che mise le Alpi a difesa nostra contro la tedesca rabbia; è contro le gloriose memorie nazionali, perchè già noi fummo vittoriosi di questi barbari. Non vogliano i Signori la rovina loro e quella d'Italia; amor di patria li persuada e li mova, ed abbiano pietà delle lagrime dei sudditi straziati; pensino infine che sono Cristiani, che vanità sono le umane grandezze e che dovranno render conto a Dio delle loro malvagie azioni. Questi nobili sentimenti gli sono ispirati dall'amore del vero; e la sua voce è quella del buon cittadino angosciato per le miserie della sua terra.

§ 13. Le condizioni politiche dell'Italia erano tristissime al tempo del Petrarca; i mali tanto deplorati da Dante si erano aggravati. L'infelice spedizione di Arrigo VII di Lussemburgo e l'ignominioso esilio dei Papi in Avignone avevano scosso grandemente la fede dei Ghibellini e dei Guelfi

come Giulio II, e i politici, come Machiavelli, e i poeti, come Alfieri. Non si comprende la storia italiana, se non si studia, fin dalle sue origini, quella corrente patriottica che lotta contro gl'intrighi dei Principi, contro le meschine ambizioni delle Repubbliche rivali, contro l'apatia e l'ignoranza dei popoli, che porta seco tutto ciò che ha la nazione d'istinti generosi, d'amor di libertà, e che, una volta scatenata, avrebbe d'un sol colpo trascinato i Governi sostenuti da forza straniera. Affrancare la penisola, purgarla della presenza dei barbari, renderla arbitra di sè e de' suoi destini, ecco il sogno dei più grandi ingegni, dei migliori patriotti che l'Italia abbia prodotto da Dante a Leopardi. E l'uomo che meglio ha espresso questo sentimento vigile, che ha composto il vero canto nazionale, la Marsigliese d'Italia, non è un rivoluzionario, nè un democratico, nè un nemico della Chiesa. Egli viveva cinque secoli fa, era canonico e arcidiacono, ammesso nell'intimità di molti Papi; se l'avesse desiderato, avrebbe potuto essere vescovo, segretario apostolico, cardinale; e passava per un uomo d'indole dolce e religioso. »

nell'Impero e nel Pontefice; le guerre che si combattevano in Italia erano cagionate non da nobile e giusta causa, ma da meschine ambizioni e da cupidigia di tiranni. Gli animi si accasciavano, l'Italia correa alla sua rovina, e i pochi buoni non potevano far altro che commiserare le sorti della loro patria. È per questo che il Petrarca non ha più una grande fede politica e non sa che gemere e deplorare le discordie nazionali e gridare: Pace, pace, pace. In lui è scoraggiamento e sconforto; il suo parlare è indarno perchè mortali sono le piaghe che numerose egli vede nel bel corpo d'Italia; egli non spera

e dubita se

che giammai dal pigro sonno Mova la testa per chiamar ch' uom faccia, Si gravemente è oppressa e di tal soma,

Dormirà sempre e non fia chi la svegli.

Ma se il Petrarca non ebbe in politica la gran fede nè la sicurezza di Dante nell'indicare i rimedi ai mali della sua nazione, ebbe tuttavia anch' egli un concetto politico e sperò anch'egli in qualcuno che liberasse l'Italia. Sua costante e sublime illusione fu che Roma doveva essere il principio della grandezza nazionale. Al suo cuore entusiasta delle antiche virtù e pieno di zelo religioso, Roma appariva come << la città unica nel mondo, la città regina, dove nacque, crebbe e trionfo Scipione », e nello stesso tempo << la città che tiene in terra le veci del cielo, piena delle ossa dei martiri, bagnata del sangue dei testimoni del vero. » Roma, benchè incolta e negletta, era pur sempre il capo del mondo, la patria dei Cesari, anzi la patria di tutti, e signora delle città e del mondo universo; e finchè fosse rimasta una pietra di quelle superbe reliquie, nessuno poteva al Popolo Romano contendere il diritto di tal supremazia, diritto divino ed eterno. << Il suo entusiasmo di poeta e il suo eloquente lin

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guaggio di oratore invocavano un'Italia grande, libera, po tente, un'Italia degl'Italiani, unita, concorde, maestra un'altra volta al mondo di virtù e sapienza. » (Bartoli).

Erano adunque teorie simili press'a poco a quelle di Dante. Se non che il Petrarca non fu in pratica sempre costante nell'indicare i mezzi per conseguire questo scopo, e le sue aspirazioni oscillarono secondo che le opportunità gli davano speranza di riuscire a quella grandezza antica o mediante la Repubblica, o mediante l'Impero.

§ 14. Pertanto, quando Cola di Rienzi concepì il disegno di ristaurare in Roma la Repubblica, il Petrarca si adoperò con tutte le sue forze affinchè il nobile tentativo avesse esito felice. E quando seppe che Cola era stato, il 31 maggio del 1347, proclamato tribuno, gli dirigeva una lettera dove esprime tutta la foga dei suoi affetti e del suo entusiasmo, dolendosi di non trovar parole convenienti al suo gaudio improvviso ed inspirato. La sua corrispondenza col tribuno fu animatissima: seguiva con ansia febbrile tutte le vicende della magnanima impresa; e già si preparava a recarsi a Roma per parteciparvi più direttamente, quando gli giunse, a Genova, la brutta notizia della caduta di Cola. Bellissime sono le parole di una sua lettera a Lelio, scritta in quel frattempo: << Veggo il fato che incalza la patria e, da qualunque lato mi volga, trovo causa e subbietto di dolore. Sconvolta Roma, dell'Italia che rimane a sperare? Ed avvilita l'Italia che sarà di me ? » Questo immedesimare sè stesso all'Italia, osserva il Bartoli, questo sentire di vivere della vita di lei, è grande e sublime: e questo solo basterebbe a fare del nostro primo poeta d'amore anche il primo italiano moderno.

La celebre Canzone che incomincia:

Spirto gentil che quelle membra reggi,

fu per lungo tempo quasi universalmente considerata come

diretta a Cola di Rienzi; finchè il Carducci, abbracciando un'opinione già sostenuta dal De Sade e dal Betti, si sforzò di provare che la Canzone fu scritta nell'anno 1335, quando fu eletto Senatore di Roma Stefano Colonna il giovane. Altri misero innanzi altri nomi: F. Labruzzi di Nexima congetturò che fosse Paolo Annibaldi; il Borgognoni si fece patrocinatore di Stefano Colonna il vecchio. Alle forti argomentazioni del Carducci si arresero subito parecchi autorevoli critici; lo impugnò invece validamente il D'Ancona, e a lui s'accostò pure il Bartoli. Ma una nota recentissimamente scoperta dal Bartoli stesso in un Codice della prima metà del Quattrocento ha fatto nascere nell'illustre critico, già difensore di Cola, il dubbio che la Canzone possa essere diretta a Bosone dei Raffaelli da Gubbio fatto Senatore di Roma nel 1337. A questa ipotesi applaude il D' Ovidio. Ormai pare accertato che sia da escludere il nome di Cola: però la questione è tutt'altro che risolta, e si aspetta l'ultima parola dalle nuove ricerche (1).

In questa Canzone, non meno lodata dell'altra diretta ai Signori d'Italia, è vivissimo il sentimento dell'antica grandezza romana e il desiderio che Roma si risollevi e ritorni ad esser forte e virtuosa. Vi si nota una certa solennità e compostezza nell' andamento della strofa, gravità di sentenze, accuratezza nella scelta delle immagini e delle frasi: tuttavia la soverchia rettorica e il troppo palese studio della forma ne raffreddano alquanto l'effetto e la rendono inferiore alla prima.

(1) Il codice fu scoperto dal Bartoli nello sfogliare alcuni manoscritti di rime antiche della preziosa collezione Ashburnham, da poco tempo restituita gloriosamente all'Italia. È un Canzoniere, dove, in fronte alla canzone Spirto gentil è scritto: Mandata a messer Bosone da Gubbio essendo senatore di Roma. Le ragioni del Bartoli, come pure quelle del Borgognoni, e del D'Ovidio, e le contrarie del Torraca si trovano nella Domenica del Fracassa, 1885, Ni 2, 4, 5 e 8.

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§ 15. Perduta la speranza nella Repubblica, il Petrarca sperò nella restaurazione dell' Impero per mezzo dell' Imperatore Carlo IV. Molte lettere gli scrisse d'incoraggiamento e di rimproveri, invocandolo in nome di Roma. Finalmente Carlo IV și mosse nel 1354; il poeta ne esultò, e sostenendo un faticoso viaggio, andò da Milano a Mantova, chiamatovil dall'Imperatore.

Quando poi seppe che Carlo IV, dopo essere stato incoronato, se ne era ignominiosamente partito d'Italia colla borsa piena d'oro, l'indignato poeta, con ammirabile coraggio, gli rivolgeva dure parole, quasi di giudice all'accusato. Ma non tralasciò d'illudersi e di fargli nuove esortazioni, e di invocarlo fino ad aver fioca la voce.» Ma l'imperatore più non tornò.

Le aspirazioni del Petrarca alla grandezza di Roma mediante la ristaurazione della Repubblica o dell' Impero furono vive e costanti. È vero che esaminando la vita del Poeta troviamo alcuni fatti che pare lo mettano in contrad"dizione con queste sue idee. Tributa lodi sperticate a Re Roberto, capo del Guelfismo in Italia e favorevole alla traslazione della sede Pontificia in Francia. Combatte e mette in ridicolo il tentativo fatto da Jacopo Bussolari a Pavia, di ricostituire l'antico Comune Romano. Accetta i favori dei Visconti i quali ricevettero Carlo IV come nemico; chiama grandissimo e magnanimo il sanguinario Galeazzo. Ma non si deve dimenticare che le contraddizioni sono nella sua natura. Carattere impressionabile, si lasciava facilmente vincere dalle subitanee impressioni. Poeta ed erudito più che uomo di Stato, fu qualche volta illogico e oscillante nei suoi atti politici: avido di gloria e di onori si lasciò lusingare dalle carezze dei Signori, ma tutte queste contraddizioni nulla tolgono alla sincerità del suo affetto per l'Italia e alla nobiltà dei suoi intendimenti.

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