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che la potenza dell' intelletto aggrava più sempre, è necessario spiegarvi, quanto è concesso in poche parole, il vero di questa accusa, perchè non crediate che acciecati dal Genio noi proponiamo alla vostra venerazione un colpevole.

Il vero è che Dante non fu Guelfo nè Ghibellino, ma com'egli dice in un verso del suo poema, s'era fatto parte per sè stesso. Le idee di Dante erano ben altre più ardite che non quelle dei Guelfi dei Ghibellini. Egli fu quindi or cogli uni or cogli altri, tanto quanto gli parevano poter giovare come mezzi a raggiungere lo scopo ch' ei s'era prefisso non più. Inoltre, i partiti allora, per la natura dei tempi e per influenza continua degli eventi stranieri, mutavano spesso nome, capi, alleati, così che l'individuo il quale si rimanea fermo nelle prime credenze pareva mutare a riguardo del proprio partito. Cangiò il Guelfismo, non Dante.

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I Guelfi erano i difensori del Papa, i Ghibellini dell'Impero. L'Impero rappresentava l'organizzazione feudale, l' aristocrazia: i nobili quindi furono ghibellini. Il municipio, il Comune, il popolo insomma fu Guelfo. Il Guelfismo trionfò. Il Comune si stabilì irrevocabilmente. Il feudalismo diventò impossibile. Rimase influenza, e in alcune parti potere, a taluni fra gli individui della nobiltà; ma la nobiltà, come corpo, fu spenta, d'allora e per sempre, in Italia.

Bensì, il popolo vincitore non seppe trarre tutto il frutto che si poteva dalla sua vittoria. I tempi non erano maturi per la Nazione. Rimase dunque tra quei Comuni senza legame un fermento d'anarchia che suddivise i partiti, e creò nuove liti, non

di principii ma di passioni, d'interessi, d'ambizioni individuali. I papi che per tenerla divisa chiamavano in Italia uno straniero contro l'altro, le attizzavano sempre più. Sotto Urbano IV, che chiamò in Italia Carlo d'Angiò, i partiti s'erano già modificati. Sotto Bonifazio VIII, che chiamò Carlo di Valois, cangiarono interamente. I Guelfi ei Ghibellini diedero luogo ai Bianchi e ai Neri: popolani i primi, patrizi i scondi. I Neri parteggiavano per Carlo di Valois, e perchè Carlo era stato chiamato da Bonifazio VIII, si dissero Guelfi. I Bianchi stavano contro il Francese, e dacchè i Ghibellini s'erano mostrati avversi ai Francesi fin dalla chiamata di Carlo d'Angiò, s'affratellarono con essi, quando Carlo di Valois li cacciò da Firenze.

Dante fu Guelfo ne' suoi primi anni di gioventù; poi fu Bianco: sempre col Popolo, cioè coll' elemento della Nazione futura.

Ma i tempi non erano allora, come abbiam detto, maturi per la Nazione. Il popolo non andava più in là dell'idea di Comune. I Papi non potevano nè volevano fondare l'Unità Italiana; e l'Unità Italiana era il pensiero predominante nell'anima di Dante. Cercando per quàli mezzi potesse fondarsi, ei si trovava tra la Francia e la Germania; ambe tendenti a governare l'Italia; ma la Francia, forte per unità, pericolosa per la simpatia che svegliava pur troppo fra noi; la Germania, incapace allora d'Unità, incapace, per la lingua, per l'opposizione dei Papi e altro, di conciliarsi favore. L' Imperatore era intanto riconosciuto da tutta Europa come centro nominale dell'autorità temporale. Dante, non potendo distruggere questo fatto, volea giovarsene; ma in qual modo?

A Dante poco importava che l'uomo il quale avrebbe rappresentato, vivo lui, l'Impero, fosse Italiano o Germanico: più che l'Imperatore, gli importava l' Impero: gli importava di toglierlo alla Germania e di ripiantarlo in Italia gli importava che dall' Italia partisse allora come sempre la parola dell' Autorità, la direzione del movimento Europeo. Dante sentiva fremersi dentro l'orgoglio della vita Italiana più potente che non fu nei migliori tra' suoi concittadini fino ai tempi nostri. La Patria era per lui una Religione. Adorava in essa non solamente il bel paese dov' egli avea ricevuto la prima carezza materna o salutato il primo sorriso d'amore di Beatrice, ma la terra destinata da Dio alla grande missione di dare unità morale all' Europa e per mezzo d'Europa all' Umanità. Ei piantava per base « che il popolo Romano avea per diritto e per divina predestinazione preso impero sopra tutti i mortali che Roma era la sede preparata dalla Provvidenza all' Impero. » Affermava « che nessun popolo avea più dolce natura nel signoreggiare, più forte nel sostenere, più sottile nell' acquistare, della gente latina, massimamente del santo romano popolo ». Credeva che « fossero degne di reverenza le pietre che stanno nelle mura della santa e gloriosissima Roma, e il suolo dov' ella siede fosse degno oltre quello che per li uomini è predicato e provato. » Roma, capitale dell' Italia, era dunque sede naturale dell'Impero universale: in Roma dovea collocarsi il rappresentante di questo Impero: da Roma partire l'ispirazione all' Umanità. È chiaro che con siffatte credenze, consegnate da lui in libri che pochissimi fra gl'Italiani leggono, intitolati Convilo e della Mc

narchia, Dante si separava tanto dai Ghibellini quanto dai Guelfi. I Ghilini volevano sottomettere l'Italia all' Impero Germanico: Dante volea assorbire l'Impero Germanico in Roma, e provare che a nessun uomo, Italiano o straniero, era possibile esercitare ragionevolmente codesto Impero se non dall'Italia e da Roma.

Tale era il pensiero di Dante, dell' uomo il più potente per ingegno che sia nato in Italia.

Nè mai egli tradì quel pensiero. Tutta la sua vita, combattuta e tristissima vita, fu d'uomo che sente la dignità della propria fede e non vuole contaminarla. Cacciato in esilio, cercò d'operare per le proprie credenze. Gli esuli lo elessero nel 1302 membro d'un Consiglio di dodici che doveva occuparsi delle cose loro; ma trovando che i suoi colleghi operavano stoltamente, Dante li abbandonò. Ritentò nel 1307, ma inutilmente. Andò pellegrino per tutta Italia, di città in città, di corte in corte, tormentato dall'ira generosa che alternava in lui coll'amore, dalla miseria, dal tedio compagno inseparabile dell'esilio, e da un pensiero insistente che lo affaticava, ma senza avvilirsi, senza rinegar quel pensiero, senza tradirlo col silenzio o con atti non degni. Trattato con sospetto o con fasto villano dai capi di parte, or Guelfi or Ghibellini, che lo ospitavano, imparò

.... come sa di sale

Lo pane altrui, e come è duro calle

Lo scendere e il salir per l'altrui scale.

imparò a diffidare della fama, della riconoscenza, dell'amicizia, e d'ogni cosa fuorchè dell' anima sua,

dell'avvenire della sua Patria e di Dio: imparò quel desiderio di morte che stilla a goccia a goccia nel cuore dell' esule finchè invada tutta la sua persona, e ch'egli espresse in quegli altri suoi versi

non so quant' io mi viva,

Ma già non fia il tornar mio tanto tosto,
Ch'io non sia col voler prima alla riva. »

e imparò, studiando gli uomini e le cose e i condottieri ambiziosi e i tirannetti italiani nei quali ad ora ad ora ei cercava infondere un pensiero generoso d'unificazione Italiana, che non v'era nulla da sperare e l'amarezza di quell' idea che dice: tu morrai senza vedere verificato il concello più santo dell'anima tua. E nondimeno, durò. Non piegò vilmente la testa davanti al soffio della sventura, o se la piegò talora segretamente, fu

<< Come la fronda che flette (1) la cima
Nel transito del vento, e poi si leva
Per la propria virtù che la sublima. »

Pati in silenzio: scrisse; consegnò via via nel Poema eterno al quale lavorava, le impressioni dell'anima, le sue vendette contro ai malvagi, le sue benedizioni ai pochissimi che trovò buoni, serbandole per gettarle ai posteri dietro il sepolcro; e intanto, quando gli eventi glie ne porgevano occasione, non tralasciò mai di predicare le proprie credenze, e di chiamare all'Unità la sua Patria. Intorno al 1316, quand'egli era vecchio di cinquantun anno, quei che governavano Firenze gli offrirono di ripatriare e di

(1) Che piega la cima nel passar del vento.

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